Per una archeologia della globalizzazione
Meltemi, 2018
di Ugo Di Girolamo
Il libro in questione contiene un puntuale aggiornamento delle teorie evoluzionistiche, nonché una efficace ricostruzione della storia evolutiva degli umani a partire dalla sotto tribù degli Hominina, passando per il genere Homo e fino al sapiens. Ma al di là di questi innegabili meriti, il testo è parzialmente infarcito di una visione ideologica dell’autore per nulla convincente.
Tutto il libro è costruito sull'antitesi
tra visioni ideologiche “progressioniste”
dell’evoluzione degli umani sviluppatesi tra otto e novecento, e dall'altra una
visione, anch'essa ideologica, che Telmo Pievani (T. P.) definisce a pag. 170 “interpretazione pluralista”.
Da una parte, quindi, i “progressionisti”,
che narrano del “glorioso cammino” degli umani alla conquista del pianeta,
dall'altra i “pluralisti” che, consapevoli della capricciosità degli eventi,
considerano l’esito attuale della globalizzazione economica e culturale come
solo uno dei tanti esiti possibili e, poiché non è certo il migliore, allora è
il caso di cambiare strada.
“Se
la nostra presenza terrena è il risultato fortunato di una lunga sequenza di
biforcazioni capricciose e di eventi contingenti [accidentali] significa che il progresso attuale è
soltanto uno dei molti esiti possibili. Se dunque il progresso non era
necessario, vorrà dire che nemmeno in futuro lo sarà”. (pag. 336)
A nulla varrebbe obiettare che queste
visioni ideologiche trionfalistiche otto-novecentesche, contro le quali T. P.
polemizza, erano largamente costruite su interpretazioni del nostro processo
evolutivo che nessuno più prende in considerazione, quali: l’anello mancante –
l’evoluzione lineare – una specie per volta – l’origine regionale del sapiens.
Ciò che conta per T. P. è contrapporre a
questi ormai superati errori del passato, cui nessuno dà più credito, una nuova
visione “pluralista”, dedotta da una storia profonda fatta di eventi
capricciosi, accidentali, contingenti, che potevano esserci oppure no, che
hanno avuto per esito uno tra i tanti possibili.
Insomma siamo alla storia fatta dai Se e dai Ma, cosa del resto consequenziale per chi concepisce “…la storia, questa sequela indomabile di eventi contingenti e di tendenze, …” (pag. 256), vale a dire: una sequela incontrollabile di eventi accidentali e di linee evolutive le più disparate.
La “Grande Dichiarazione di Interdipendenza”
Per T. P. l’esito attuale della
globalizzazione economica e culturale fa del sapiens “….un organismo che
distrugge gli ambienti con cui viene a contatto al punto di mettere a
repentaglio la sua stessa sopravvivenza.” (pag. 331)
“…vi
sono molte altre globalizzazioni possibili e forse preferibili.” (pag 224)
da qui, quindi, per T. P. la necessità di una “Grande Dichiarazione di Interdipendenza”
“…ogni popolazione umana è invischiata da
sempre in una fitta rete di interdipendenze evolutive, ecologiche, planetarie.”
(pag. 339)
Questa grande dichiarazione di principio
dovrebbe servire a salvaguardare, quello che T. P. ritiene il bene più
prezioso, la diversità biologica e culturale, cosa possibile solo con un’unità
di intenti globale. “Divisa in frammenti
che chiamiamo nazioni, tribù o mercati, l’umanità non ce la può fare.”
(pag. 339) “Tale consapevolezza dovrebbe
accrescere i nostri sentimenti di libertà, di solidarietà e di responsabilità” (pag
340) e con questo auspicio il libro si conclude.
Beh! Sembra tanto la riproposizione aggiornata del vecchio mantra ecologista del “vivere in armonia con la natura”.
Globalizzazione e varietà culturale.
Ma a parte questa
sensazione del tutto personale, la prima obiezione che si può fare è che T. P.,
nel mentre auspica nelle parole finali del libro il superamento della
frammentazione degli umani in nazioni, tribù e mercati, poi, nel contempo, si
lamenta della perdita di “varietà culturale” che è inevitabilmente associata ad
un processo di unificazione economica e culturale.
Il suo mentore, Eldredge, nella prefazione arriva al punto di dispiacersi per la scomparsa di più di 500 lingue negli ultimi 100 anni, per lui una grave perdita di varietà culturale (pag. 12) come se parlare una babele di lingue fosse preferibile a che tutti gli umani parlassero una sola lingua com’è probabile e auspicabile che avverrà in futuro se il trend unificante non verrà interrotto traumaticamente.
Globalizzazione e democrazia
A pag. 224 T. P. afferma che l’attuale
globalizzazione “…limita gli spazi di
libertà e di democrazia,…” come questo avvenga non è però spiegato da
nessuna parte. T. P. attribuisce al processo di unificazione economica e
culturale, detto globalizzazione, la crisi dei sistemi democratici che ha
origine, invece, nelle trasformazioni socio economiche indotte dall’avanzare
dell’Intelligenza Artificiale.
Non la democrazia ma le democrazie
liberali sono sorte con l’affermarsi della rivoluzione industriale. Il
passaggio dalle società industrializzate, dove la maggioranza degli attivi era
impegnata nelle attività manifatturiere, a nuove forme di società, che si vanno
delineando con la rivoluzione della Intelligenza Artificiale e delle
biotecnologie, comporta e comporterà sempre più sconvolgimenti profondi della
stessa composizione e stratificazione sociale. E questo non può e non potrà non
avere effetti sulle istituzioni democratiche. Da qui le difficoltà della
democrazia liberale e non dal processo di unificazione economica e culturale.1
Planetarizzazione e globalizzazione
T. P.
tende a mischiare, come fossero un’unica cosa, due fenomeni diversi:
planetarizzazione e globalizzazione. Con il primo si intende il processo di
occupazione del pianeta da parte del genere Homo uscito dall’Africa; con il
secondo un processo di unificazione economico e culturale iniziato nella
seconda metà del XV secolo dai portoghesi.
La diffusione fuori dall’Africa è stata molto probabilmente iniziata dall’abilis (o rudolfensis) oltre due milioni di anni fa ed è stata completata dal sapiens in tutti i continenti, escluso l’Antartide, non oltre 20.000 anni fa, se si fa eccezione ovviamente per le isole del Pacifico.
Le tre uscite dall’Africa
T. P. è troppo attaccato alla narrazione
delle tre uscite dall’Africa (Erectus –
Heidelbergensis – Sapiens) per rendersi conto che Homo Dmanisi, per le sue caratteristiche fisiche, simili all’abilis e diverse dall’erectus, fa pensare ad una prima uscita
oltre i 2 milioni di anni fa dell’abilis
o del rudolfensis prima dell’erectus,2 senza contare gli ultimi ritrovamenti in Cina di manufatti litici
di cultura olduvaiana, associabili in primo luogo all’abilis.
Lo stesso sapiens ha avuto almeno due fasi migratorie fuori dall’Africa, nella prima è rimasto bloccato in Israele dai neanderthal, la seconda, intorno ai 70 mila anni fa, via mare passando per Bab el Mandeb.
Una pacifica convivenza
Questa lunga vicinanza in Medio Oriente,
durata 65 mila anni, tra neanderthal e
sapiens fa dire a T.P che in fondo
era possibile la convivenza tra le due specie (pag. 241) e che se i primi sono
scomparsi le circostanze della loro estinzione restano oscure (pag. 242).
Il fatto che la prima uscita del sapiens dall’Africa, intorno ai 120 mila
anni fa, sia stata bloccata nell’Alta Galilea, mentre la seconda passata per
Bab el Mandeb abbia avuto successo, fa dire ad Harari che questa è una prova
che proprio in quel periodo è avvenuta nei sapiens
una “rivoluzione cognitiva” “fatta di nuovi modi di pensare e di
comunicare”3, che ha fornito al sapiens un vantaggio sui neanderthal.
T. P. la chiama “…rivoluzione….comportamentale e intellettiva.” (pag.
261)
Non è chiaro al momento se questa
rivoluzione sia il frutto di una qualche mutazione o sia semplicemente il
risultato di una accumulazione culturale nel corso di svariati millenni.
Tuttavia, una volta acquisito un vantaggio sugli altri umani, i sapiens non ci misero molto a causare
l’estinzione di almeno 4 specie di umani ancora presenti sul pianeta nel
Pleistocene superiore.
Così come ci vollero poche migliaia di
anni, una volta giunti in Nord America, a far sparire 90 generi (quindi
centinaia di specie) di mammiferi superiori ai 44 kg di peso. I cavalli, ad
esempio, se li mangiarono tutti nel continente Americano. Gli ultimi neanderthal sopravvissuti sulla Rocca di
Gibilterra sparirono 24 mila anni fa.
T. P. non riesce a comprendere come il sapiens abbia causato l’estinzione dei neanderthal (e si aggiungano almeno
altre tre specie di umani) e conclude dicendo: forse non siamo stati noi “noi potremmo essere stati non la causa
diretta della loro estinzione ma il colpo di grazia”. (pag. 243) Come a
dire in fondo non è stata colpa nostra, si stavano già estinguendo e noi
abbiamo solo completato il processo.
T. P., stranamente, in vari passaggi nel
testo sembra avere scarsa dimestichezza con l’Etologia, in particolare quella
dei mammiferi, umani compresi. Su alcuni di essi torneremo più avanti ma per
adesso richiamo l’attenzione sugli studi etologici relativi agli scimpanzé
(Troglodytes). In uno stupendo testo riassuntivo di trent’anni di osservazioni
condotte da Jane Goodall4 viene esplicitato il feroce meccanismo di
eliminazione di un gruppo di scimpanzé da parte di un altro più numeroso.
Periodicamente e sistematicamente i maschi
di un gruppo, in fila indiana e silenziosamente, guidati dal maschio alfa,
pattugliano i confini del proprio territorio, se trovano uno o due membri del
gruppo confinante li aggrediscono e se questi non riescono a scappare vengono
uccisi. Se invece incontra un gruppo cominciano a minacciarsi, quello meno
numeroso, pur non scappando via, risponde alle minacce, ma arretra tenendosi a
distanza di sicurezza. Così una volta dopo l’altra, le uccisioni occasionali e
gli arretramenti della linea di confine, finiscono col ridurre drasticamente il
territorio del gruppo meno numeroso, riducendo la quantità di cibo disponibile
che a sua volta è causa della riduzione e dell’indebolimento del gruppo.
Dopo alcuni anni gli ultimi rimasti o
vengono uccisi o sono costretti a scappare via dal proprio territorio. Le
giovani femmine possono essere assorbite nel gruppo più grande.
Ecco come può essere andata tra sapiens, neanderthal, denisova, luzonensis, floresensis
e probabilmente qualche altra specie di discendenti dell’erectus in Asia Orientale. Lentamente,
ma inesorabilmente il sapiens ha
sottratto con la violenza territori alle altre specie nell’arco più o meno di
trenta mila anni, condannandoli ad una lenta diminuzione di popolazione fino a
provocarne l’estinzione!
Che nel corso di questi millenni siano avvenute delle ibridazioni tra sapiens, neanderthal e denisova, delle quali portano tracce nel genoma i discendenti dei sapiens usciti dall’Africa, non cambia assolutamente nulla; questo non è indicativo di pacifica convivenza, la sostanza è che il sapiens ha causato l’estinzione delle altre specie umane.
Una svista ?
Parlando dei “primi ominini”, che supponiamo siano gli australopitechi, T. P.
afferma “….il bipedismo fu gradualmente
accompagnato da una diversificazione della dieta…e non è escluso che
cominciassero a rubare ai predatori le carcasse degli animali uccisi.”
(pag.79)
Non so se è una svista o una imprecisione
linguistica, ma è davvero difficile capire come possa fare un esserino gracile,
di un metro e trenta o quaranta, anche in gruppo, a “rubare” ai grandi felini del Pliocene finale o primo Pleistocene “le carcasse degli animali uccisi”.
Oggi i leoni rubano le prede ai leopardi,
un branco numeroso di iene ruba la preda anche ad un piccolo gruppo di leoni o
ai leopardi e tutti e tre rubano le prede ai ghepardi. Ma forse T. P. intendeva
dire che un gruppo di australopitechi, trovata una carcassa spolpata e
abbandonata dai grandi felini, fosse in grado con pietre e bastoni di scacciare
uccelli e piccoli predatori necrofagi, approfittando di ciò che restava.
Ma non è così. Ascoltando una sua conferenza in rete, l’ho sentito ripetere che un gruppo di australopitechi “disturbava un predatore” che aveva abbattuto una preda per farlo andare via e prendersi la carcassa. La cosa è talmente inverosimile che non riesco a comprendere come T. P. abbia potuto concepirla.
Un’altra svista!
Sempre riferendosi ai “primi ominini” e al loro habitat,
(continuando a supporre che si intendano gli australopitechi) T. P. ci informa
che “Essi prediligevano le zone aperte
vicino ai fiumi,…possibilmente nelle vicinanze di canyon o di alture ricche di
grotte dove trovare riparo” (pag 62).
Come fa T. P. ad immaginare che un
mammifero di taglia medio piccola, privo di difese e la cui unica via di
salvezza dai grandi predatori era quella di arrampicarsi in cima agli alberi
(come fanno oggi i babbuini), possa trascorrere le sue giornate in “…zone aperte vicino ai fiumi”, vale a
dire nei luoghi preferiti dai predatori per tendere agguati ad altri animali, è
per me un mistero ?!
In realtà, in uno studio di Robert J. Blumenschine e John A. Cavallo5,
per l’abilis, ma la cosa vale anche
per l’australopiteco (entrambi con peso leggero e braccia lunghe atte ad una
veloce arrampicata sulle cime degli alberi), affermano che l’ambiente più
favorevole alla ricerca e conservazione delle carcasse parzialmente spolpate e
abbandonate dai grandi predatori è la boscaglia fluviale, non le zone aperte.
Vicino al fiume dove i predatori prediligevano tendere gli agguati e
vicinissimi agli alberi per sfuggire a questi. La boscaglia inoltre era utile
per nascondere le carcasse agli altri animali necrofagi.
Altrettanto sconcertante è l’idea che un
australopiteco, ma anche un abilis o
un rudolfensis, possa ripararsi in
una grotta! Una volta fiutato da un grosso felino, la grotta si sarebbe
trasformata in una trappola mortale, senza via di scampo. Solo i grandi
predatori potevano utilizzare come rifugio le grotte e soltanto quando l’erectus (o ergaster) imparerà ad usare il fuoco che sarà possibile sloggiare i
predatori dalle grotte e insediarvisi, con un fuoco acceso dentro che
scoraggiasse l’avvicinarsi dei felini.
Il fuoco consentirà agli umani di uscire da una posizione intermedia nella catena alimentare e posizionarsi al top.
Il velociraptor di Jurassic Park
Sempre della serie: la storia fatta con i
Se e i Ma, T. P. ci esorta ad avere “una
certa umiltà evoluzionistica” perché “…in
molte occasioni le cose avrebbero potuto girare diversamente e ora avrebbe
potuto esserci al nostro posto un’altra specie dominante, magari una società di
veloci e astuti velociraptor….” (pag 334).
Incitare gli umani ad essere più umili è
cosa davvero meritoria e condivisibile, tuttavia l’esempio scelto allo scopo è
proprio infelice.
Il velociraptor, non quello di Jurassic Park, ma quello reale, del quale sono state trovate le ossa pietrificate nel deserto del Gobi, era un piccolo predatore piumato alto 50 centimetri, con una lunga coda e un peso intorno ai 15 chili, insomma un grosso tacchino. Come un carnivoro specializzato di piccola taglia sarebbe potuto diventare una specie intelligente al top della catena alimentare resta per me – profano – un oscuro mistero evolutivo.
Un mistero che non esiste
A pag 136 T. P. ci informa che “Dopo le deboli testimonianze africane del Paleolitico
inferiore [1 milione e mezzo di anni fa in Sud Africa, Tanzania e Kenya] non si registrano casi di addomesticamento
certo del fuoco per più di un milione di anni. Per ritrovare i focolari nei
siti archeologici bisogna giungere a ritrovamenti di 500 mila anni fa, e per di
più in tutt’altra parte, in Europa”.
Questo per T. P. rappresenta “uno dei più straordinari misteri”. (pag.
136)
Ma il vero mistero è come abbia fatto T.
P. ad inventarsi questo buco di un milione di anni. Per non farla lunga
riportiamo solo tre esempi di grotte dove sono state trovate tracce certe di
uso del fuoco (e non certo dopo la pubblicazione del libro), ricadenti in
questo presunto milione di anni senza fuoco.
-
Petralona, Nord della Grecia , 700 mila
anni fa, resti di uso del fuoco;
-
Gesher Benot Ya’aqov, Israele, uso del
fuoco risalente a 790 mila anni fa;
-
Wonderwek, Sud Africa, tracce
inequivocabili di focolari di un milione di anni fa.
Sull’origine dell’uso del fuoco T. P. si
tiene solo alle prove archeologiche che fanno risalire tale uso ad un milione e
mezzo di anni fa.
Richard Wrangham, docente di antropologia biologica a Harvard, consapevole che “l’archeologia non ci dice con precisione quando i nostri progenitori cominciarono a farlo [il fuoco]” cerca un’altra strada “….abbiamo denti piccoli e intestino corto come risultato dell’adattamento ad una dieta di cibi cotti.” L’abilis, apparso 2,8 milioni di anni fa e poi il rudolfensis non avevano queste caratteristiche, con l’erectus (o ergaster), apparso 1,9 - 1,8 milioni di anni fa, compaiono queste caratteristiche. Quindi, per R. Wrangham è con l’erectus che comincia l’uso sistematico del fuoco e la cottura del cibo.6
Una teoria antiquata sulla guerra
“In
generale, non vi sono testimonianze archeologiche del fatto che l’uomo
conoscesse l’istituzione della guerra prima della rivoluzione agricola e quindi
prima della nascita del possesso territoriale,….” (pag. 254).
Prima
di entrare nel merito di questa affermazione sgombriamo il campo dalla parola “Istituzione” che di per sé dà il senso
di una costruzione culturale e usiamo semplicemente la parola guerra, intesa
come aggressione volontaria e preordinata di un gruppo umano verso un altro.
Non so quali prove T. P. cerchi, che si
tratti delle lance di Schöningen di 400 mila anni fa (otto lance, sette da tiro
e una da caccia ravvicinata, ritrovate in una miniera di lignite a cielo aperto
in Germania, insieme a numerosi altri reperti litici e ossei) o di zagaglie e
frecce, tutte potevano servire per uccidere sia un’antilope che un umano.
Nelle grotte di Cosquer, De Cognac,
Pech-Merle e Sous-Grand-Lac, in Francia, ci sono raffigurazioni parietali del Paleolitico
superiore di persone trafitte da lance. In una tomba risalente a 12 mila anni
fa a Djebel Sahaba (Sudan) - prima della
rivoluzione agricola - sono stati
trovati due scheletri sepolti insieme trafitti da numerose frecce. Nella grotta
dell’Addaura in Sicilia vi è una scena impressionante – risalente al Paleolitico
finale – nella quale si vedono nove figure umane che circondano due individui
stesi a terra incaprettati. Una morte lenta e atroce tocca a chi viene messo in
questa posizione.
Nella grotta di Valltorta (Spagna) vi è
raffigurato un uomo morente trafitto da freccia risalente al Paleolitico. Nella
grotta di Morella La Vella (Spagna), tra i tanti dipinti parietali risalenti al
Paleolitico ve n’è uno che raffigura due gruppi umani, 4 da una parte e 3
dall’altra, che si combattono con archi e frecce.
Ma a parte queste raffigurazioni rupestri
chiaramente attribuibili al Paleolitico, vale a dire a prima della rivoluzione
agricola, ve ne sono molte altre nelle grotte di Spagna e Francia del primo Neolitico
nelle quali vi sono raffigurate vere e proprie battaglie tra gruppi umani
riportate nella ricerca di Jean Guilaine e Jean Zammit.7 Ora va
considerato che stante alla ricerca interdisciplinare del genetista Luca
Cavalli Sforza8 l’invasione di popolazioni praticanti l’agricoltura
nella Francia centro settentrionale e nel nord della Spagna è avvenuta non
prima del 4000 a. C. Pertanto è presumibile che molte di quelle scene riguardino
popolazioni preagricole.
Gli scimpanzè (troglodytes), la specie a
noi più vicina con la quale condividiamo il 98,4% del DNA, praticano
l’infanticidio, il cannibalismo verso i piccoli, l’uccisione di cospecifici e
forme di aggressioni preordinate e sistematiche verso altri gruppi di
scimpanzè, volte a tenere fuori gli altri dal proprio territorio o ad ampliare
i confini dello stesso.
Gli umani praticano l’infanticidio, il
cannibalismo (fino al XVII – XVIII secolo) e non solo il sapiens ma anche il neanderthal
(grotta di Krapina in Croazia) e l’uccisione di cospecifici nel Neolitico come
nel Paleolitico. Perché mai P.T. esclude che gli umani prima del Neolitico,
vale a dire prima della rivoluzione agricola, siano esenti da scontri tra
gruppi intenzionali e organizzati, classificabili come forme di guerra ? Perché
non c’è - dice T. P. – il “possesso
territoriale”, con la pratica dell’agricoltura nasce l’esigenza “…di controllo sulla terra coltivabile”, e
quindi le guerre tra i diversi gruppi umani.
Francamente mi sembra assolutamente una
cosa insostenibile ! È ovvio che il controllo della terra coltivabile, dalla
quale i popoli agricoltori traevano il loro nutrimento, poteva scatenare
conflitti tra questi. Ma è altrettanto ovvio che per una tribù di cacciatori-raccoglitori
il territorio nel quale erano insediati rappresentava la fonte del loro
nutrimento fatto di frutta o altri vegetali raccolti oppure di animali piccoli
o grandi da cacciare.
In “Etologia
della Guerra”, Eibl-Eibesfeldt ci dice che “….tutte le popolazioni di cacciatori-raccoglitori posseggono territori
che di norma sono chiusi agli estranei”9.
Perdere una parte del proprio territorio
significava riduzione della quantità di cibo raccoglibile o cacciabile, vale a
dire: fame ! Quando, per effetto di cambiamenti climatici o a causa di un eccessivo
sfruttamento delle risorse alimentari del territorio, il gruppo di cacciatori-raccoglitori
o parte di essi, non era più in grado di nutrirsi sufficientemente, era
costretto a cercare nuovi territori vuoti o invadere quelli di altri gruppi, la
qual cosa non era certo un fatto pacifico.
T. P. – come tanti altri nel passato –
esentando i cacciatori-raccoglitori dal fenomeno guerra, nato a suo dire con la
rivoluzione agricola, ci dice che c’è speranza per il futuro. Per lui la guerra
è un adattamento dovuto all’acquisizione di uno stile di vita sedentario e di
controllo sulle terre coltivabili, quindi non inevitabilmente iscritto
nell’evoluzione del genere umano (pag. 254), e come tale prima o poi
superabile.
Marx ed Engels vedevano nella divisione in
classi delle società umane, conseguente alla rivoluzione agricola, l’origine
del fenomeno guerra e pertanto la fine della società divisa in classi avrebbe
significato la fine della guerra.
Per gli intellettuali repubblicani europei
del XVIII secolo le guerre altro non erano che la conseguenza della volontà
delle famiglie regnanti di acquisire il controllo di nuovi territori da
annettere ai loro regni. L’avvento delle repubbliche avrebbe consentito ai
popoli di vivere in pace.
La storia si è incaricata di falsificare queste lodevoli intenzioni di porre fine ad un odioso fenomeno, lasciando aperto il problema del come superare questo atroce comportamento degli umani.
Una “specie bambina” o una specie al capolinea ?
Infine, T. P. è ben consapevole delle
immense potenzialità della tecnologia CRISPR-Cas9, e degli stravolgimenti che
essa apporterà. “Per la prima volta sulla
terra una specie biologica è capace di porre mano al proprio materiale
genetico, di alterare i processi ereditari propri e di altre specie vegetali e
animali.” (pag. 335) “Siamo
diventati….un nuovo fattore evolutivo sulla terra, il che richiede saggezza
e buon senso” (pag 335).
Tutto qui ?!
Beh! Da un biologo evoluzionista, che è
anche filosofo, che viene a proporci in questo libro l’idea che l’attuale
processo di unificazione economico e culturale è sbagliato e ne va inventato,
scelto, un altro ci si aspetterebbe qualcosa di più, relativamente al
CRISPR-Cas9, di un semplice appello a saggezza e buon senso. Mi è capitato di
ascoltare in rete una conferenza di P.T. sulla tecnologia CRISPR-Cas9 e anche
qui, accanto ad un’ottima illustrazione della tecnologia e di potenzialità e
pericoli nell’immediato, solo appelli alla saggezza e al buon senso.
N. Y. Harari che ha pubblicato “Sapiens. Da animali a Dei” nel 2011 - un
anno prima che la ricerca CRISPR-Cas9 fosse pubblicata, ma gli studi sulle
tecnologie per modificare il genoma dall’interno erano già in corso da un
decennio e più – evidenzia che queste nuove capacità umane creano un enorme
problema politico e filosofico su come usarle. Esse, a suo parere, porteranno
inevitabilmente nel giro di alcuni secoli a modifiche degli umani tali da
configurare una nuova specie o più specie umane, quindi la fine del sapiens attuale.
Diversamente T. P. continua a parlare del sapiens come di “una specie bambina”, il che sul piano evoluzionistico sarà anche vero, ma francamente è stucchevole.
In conclusione
Facendo la tara all'ideologia “pluralista” e ad alcuni scivoloni
dell’autore, il libro contiene importanti aggiornamenti delle teorie
evoluzionistiche e soprattutto una ricostruzione puntuale della storia
evolutiva degli umani, il che non è poco!
A parte certi ideologismi non condivisibili, il testo contiene innumerevoli spunti riflessivi e come tale merita di essere letto.
Note
1.
Due
ottimi testi sugli stravolgimenti indotti dalla rivoluzione dell’Intelligenza
Artificiale e delle biotecnologie sono: Klaus Schwab, “La quarta rivoluzione industriale”, Franco Angeli, 2016; Jerry
Kaplan, “Intelligenza Artificiale, guida
al futuro prossimo”, Luiss University Press, 2017.
2.
Per
Giorgio Manzi i caratteri fisici degli scheletri di Dmanisi fanno pensare non ad un erectus
ma a una forma intermedia tra questi e gli abilis.
“L’evoluzione umana”, il Mulino,
2007, pag. 91
3.
N.
Y. Harari, “Sapiens da animali a dei.
Breve storia dell’umanità”, Bompiani, 2011, pag. 93
4.
J.
Goodall, “Il popolo degli scimpanzé”,
Rizzoli, 1a ed., 1991.
5.
R. J. Blumenschine
– J. A. Cavallo, “Comportamento
alimentare ed evoluzione umana”, LE SCIENZE n. 113, Aprile 2000, pp. 46-53
6.
R.
Wrangham, “L’intelligenza del fuoco”,
Bollati & Boringhieri, 2014, pp. 97-118
7.
Jean
Guilaine e Jean Zammit, “Le sentier de la
Guerre. Visages de la violence prehistorique”, SEUIL, Paris, 2001
8.
Luca
e Francesco Cavalli Sforza, ”Chi siamo.
La storia della diversità umana”, Mondadori, 1993
9.
Irenaus
Eibl-Eibesfeldt, “Etologia della guerra”,
Bollati & Boringhieri, 1983, pag. 161
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