2 mag 2021

HOMO SAPIENS E ALTRE CATASTROFI

Per una archeologia della globalizzazione

Meltemi, 2018

UN LIBRO INTERESSANTE,   MA…..

di Ugo Di Girolamo

  Telmo Pievani, l’autore, è un filosofo e biologo evoluzionista che insegna e fa ricerca presso l’Università di Padova, ma è soprattutto uno straordinario divulgatore scientifico.

     Il libro in questione contiene un puntuale aggiornamento delle teorie evoluzionistiche, nonché una efficace ricostruzione della storia evolutiva degli umani a partire dalla sotto tribù degli Hominina, passando per il genere Homo  e fino al sapiens. Ma al di là di questi innegabili meriti, il testo è parzialmente infarcito di una visione ideologica dell’autore per nulla convincente.

     Tutto il libro è costruito sull'antitesi tra visioni ideologiche “progressioniste” dell’evoluzione degli umani sviluppatesi tra otto e novecento, e dall'altra una visione, anch'essa ideologica, che Telmo Pievani (T. P.) definisce a pag. 170 “interpretazione pluralista”.

     Da una parte, quindi, i “progressionisti”, che narrano del “glorioso cammino” degli umani alla conquista del pianeta, dall'altra i “pluralisti” che, consapevoli della capricciosità degli eventi, considerano l’esito attuale della globalizzazione economica e culturale come solo uno dei tanti esiti possibili e, poiché non è certo il migliore, allora è il caso di cambiare strada.

     Se la nostra presenza terrena è il risultato fortunato di una lunga sequenza di biforcazioni capricciose e di eventi contingenti [accidentali] significa che il progresso attuale è soltanto uno dei molti esiti possibili. Se dunque il progresso non era necessario, vorrà dire che nemmeno in futuro lo sarà”. (pag. 336)

     A nulla varrebbe obiettare che queste visioni ideologiche trionfalistiche otto-novecentesche, contro le quali T. P. polemizza, erano largamente costruite su interpretazioni del nostro processo evolutivo che nessuno più prende in considerazione, quali: l’anello mancante – l’evoluzione lineare – una specie per volta – l’origine regionale del sapiens.

     Ciò che conta per T. P. è contrapporre a questi ormai superati errori del passato, cui nessuno dà più credito, una nuova visione “pluralista”, dedotta da una storia profonda fatta di eventi capricciosi, accidentali, contingenti, che potevano esserci oppure no, che hanno avuto per esito uno tra i tanti possibili.

     Insomma siamo alla storia fatta dai Se e dai Ma, cosa del resto consequenziale per chi concepisce “…la storia, questa sequela indomabile di eventi contingenti e di tendenze, …” (pag. 256), vale a dire: una sequela incontrollabile di eventi accidentali e di linee evolutive le più disparate.

La “Grande Dichiarazione di Interdipendenza”

     Per T. P. l’esito attuale della globalizzazione economica e culturale fa del sapiens “….un organismo che distrugge gli ambienti con cui viene a contatto al punto di mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza.” (pag. 331)

     “…vi sono molte altre globalizzazioni possibili e forse preferibili.” (pag 224) da qui, quindi, per T. P. la necessità di una “Grande Dichiarazione di Interdipendenza” “…ogni popolazione umana è invischiata da sempre in una fitta rete di interdipendenze evolutive, ecologiche, planetarie.” (pag. 339)

     Questa grande dichiarazione di principio dovrebbe servire a salvaguardare, quello che T. P. ritiene il bene più prezioso, la diversità biologica e culturale, cosa possibile solo con un’unità di intenti globale. “Divisa in frammenti che chiamiamo nazioni, tribù o mercati, l’umanità non ce la può fare.” (pag. 339) “Tale consapevolezza dovrebbe accrescere i nostri sentimenti di libertà, di solidarietà e di responsabilità” (pag 340) e con questo auspicio il libro si conclude.

     Beh! Sembra tanto la riproposizione aggiornata del vecchio mantra ecologista del “vivere in armonia con la natura”.

Globalizzazione e varietà culturale.

     Ma a parte questa sensazione del tutto personale, la prima obiezione che si può fare è che T. P., nel mentre auspica nelle parole finali del libro il superamento della frammentazione degli umani in nazioni, tribù e mercati, poi, nel contempo, si lamenta della perdita di “varietà culturale” che è inevitabilmente associata ad un processo di unificazione economica e culturale.

     Il suo mentore, Eldredge, nella prefazione arriva al punto di dispiacersi per la scomparsa di più di 500 lingue negli ultimi 100 anni, per lui una grave perdita di varietà culturale (pag. 12) come se parlare una babele di lingue fosse preferibile a che tutti gli umani parlassero una sola lingua com’è probabile e auspicabile che avverrà in futuro se il trend unificante non verrà interrotto traumaticamente.

Globalizzazione e democrazia

     A pag. 224 T. P. afferma che l’attuale globalizzazione “…limita gli spazi di libertà e di democrazia,…” come questo avvenga non è però spiegato da nessuna parte. T. P. attribuisce al processo di unificazione economica e culturale, detto globalizzazione, la crisi dei sistemi democratici che ha origine, invece, nelle trasformazioni socio economiche indotte dall’avanzare dell’Intelligenza Artificiale.

     Non la democrazia ma le democrazie liberali sono sorte con l’affermarsi della rivoluzione industriale. Il passaggio dalle società industrializzate, dove la maggioranza degli attivi era impegnata nelle attività manifatturiere, a nuove forme di società, che si vanno delineando con la rivoluzione della Intelligenza Artificiale e delle biotecnologie, comporta e comporterà sempre più sconvolgimenti profondi della stessa composizione e stratificazione sociale. E questo non può e non potrà non avere effetti sulle istituzioni democratiche. Da qui le difficoltà della democrazia liberale e non dal processo di unificazione economica e culturale.1

Planetarizzazione e globalizzazione

     T. P.  tende a mischiare, come fossero un’unica cosa, due fenomeni diversi: planetarizzazione e globalizzazione. Con il primo si intende il processo di occupazione del pianeta da parte del genere Homo uscito dall’Africa; con il secondo un processo di unificazione economico e culturale iniziato nella seconda metà del XV secolo dai portoghesi.

     La diffusione fuori dall’Africa è stata molto probabilmente iniziata dall’abilis (o rudolfensis) oltre due milioni di anni fa ed è stata completata dal sapiens in tutti i continenti, escluso l’Antartide, non oltre 20.000 anni fa, se si fa eccezione ovviamente per le isole del Pacifico.

Le tre uscite dall’Africa

     T. P. è troppo attaccato alla narrazione delle tre uscite dall’Africa (Erectus – Heidelbergensis – Sapiens) per rendersi conto che Homo Dmanisi, per le sue caratteristiche fisiche, simili all’abilis e diverse dall’erectus, fa pensare ad una prima uscita oltre i 2 milioni di anni fa dell’abilis o del rudolfensis prima dell’erectus,2 senza contare gli ultimi ritrovamenti in Cina di manufatti litici di cultura olduvaiana, associabili in primo luogo all’abilis.

     Lo stesso sapiens ha avuto almeno due fasi migratorie fuori dall’Africa, nella prima è rimasto bloccato in Israele dai neanderthal, la seconda, intorno ai 70 mila anni fa, via mare passando per Bab el Mandeb.

Una pacifica convivenza

     Questa lunga vicinanza in Medio Oriente, durata 65 mila anni, tra neanderthal e sapiens fa dire a T.P che in fondo era possibile la convivenza tra le due specie (pag. 241) e che se i primi sono scomparsi le circostanze della loro estinzione restano oscure (pag. 242).

     Il fatto che la prima uscita del sapiens dall’Africa, intorno ai 120 mila anni fa, sia stata bloccata nell’Alta Galilea, mentre la seconda passata per Bab el Mandeb abbia avuto successo, fa dire ad Harari che questa è una prova che proprio in quel periodo è avvenuta nei sapiens una “rivoluzione cognitiva” “fatta di nuovi modi di pensare e di comunicare3, che ha fornito al sapiens un vantaggio sui neanderthal. T. P. la chiama “…rivoluzione….comportamentale e intellettiva.” (pag. 261)

     Non è chiaro al momento se questa rivoluzione sia il frutto di una qualche mutazione o sia semplicemente il risultato di una accumulazione culturale nel corso di svariati millenni. Tuttavia, una volta acquisito un vantaggio sugli altri umani, i sapiens non ci misero molto a causare l’estinzione di almeno 4 specie di umani ancora presenti sul pianeta nel Pleistocene superiore.

     Così come ci vollero poche migliaia di anni, una volta giunti in Nord America, a far sparire 90 generi (quindi centinaia di specie) di mammiferi superiori ai 44 kg di peso. I cavalli, ad esempio, se li mangiarono tutti nel continente Americano. Gli ultimi neanderthal sopravvissuti sulla Rocca di Gibilterra sparirono 24 mila anni fa.

     T. P. non riesce a comprendere come il sapiens abbia causato l’estinzione dei neanderthal (e si aggiungano almeno altre tre specie di umani) e conclude dicendo: forse non siamo stati noi “noi potremmo essere stati non la causa diretta della loro estinzione ma il colpo di grazia”. (pag. 243) Come a dire in fondo non è stata colpa nostra, si stavano già estinguendo e noi abbiamo solo completato il processo.

     T. P., stranamente, in vari passaggi nel testo sembra avere scarsa dimestichezza con l’Etologia, in particolare quella dei mammiferi, umani compresi. Su alcuni di essi torneremo più avanti ma per adesso richiamo l’attenzione sugli studi etologici relativi agli scimpanzé (Troglodytes). In uno stupendo testo riassuntivo di trent’anni di osservazioni condotte da Jane Goodall4 viene esplicitato il feroce meccanismo di eliminazione di un gruppo di scimpanzé da parte di un altro più numeroso.

     Periodicamente e sistematicamente i maschi di un gruppo, in fila indiana e silenziosamente, guidati dal maschio alfa, pattugliano i confini del proprio territorio, se trovano uno o due membri del gruppo confinante li aggrediscono e se questi non riescono a scappare vengono uccisi. Se invece incontra un gruppo cominciano a minacciarsi, quello meno numeroso, pur non scappando via, risponde alle minacce, ma arretra tenendosi a distanza di sicurezza. Così una volta dopo l’altra, le uccisioni occasionali e gli arretramenti della linea di confine, finiscono col ridurre drasticamente il territorio del gruppo meno numeroso, riducendo la quantità di cibo disponibile che a sua volta è causa della riduzione e dell’indebolimento del gruppo.

     Dopo alcuni anni gli ultimi rimasti o vengono uccisi o sono costretti a scappare via dal proprio territorio. Le giovani femmine possono essere assorbite nel gruppo più grande.

     Ecco come può essere andata tra sapiens, neanderthal, denisova, luzonensis, floresensis e probabilmente qualche altra specie di discendenti dell’erectus in Asia Orientale. Lentamente, ma inesorabilmente il sapiens ha sottratto con la violenza territori alle altre specie nell’arco più o meno di trenta mila anni, condannandoli ad una lenta diminuzione di popolazione fino a provocarne l’estinzione!

     Che nel corso di questi millenni siano avvenute delle ibridazioni tra sapiens, neanderthal e denisova, delle quali portano tracce nel genoma i discendenti dei sapiens usciti dall’Africa, non cambia assolutamente nulla; questo non è indicativo di pacifica convivenza, la sostanza è che il sapiens ha causato l’estinzione delle altre specie umane.

Una svista ?

     Parlando dei “primi ominini”, che supponiamo siano gli australopitechi, T. P. afferma “….il bipedismo fu gradualmente accompagnato da una diversificazione della dieta…e non è escluso che cominciassero a rubare ai predatori le carcasse degli animali uccisi.” (pag.79)

     Non so se è una svista o una imprecisione linguistica, ma è davvero difficile capire come possa fare un esserino gracile, di un metro e trenta o quaranta, anche in gruppo, a “rubare” ai grandi felini del Pliocene finale o primo Pleistocene “le carcasse degli animali uccisi”.

     Oggi i leoni rubano le prede ai leopardi, un branco numeroso di iene ruba la preda anche ad un piccolo gruppo di leoni o ai leopardi e tutti e tre rubano le prede ai ghepardi. Ma forse T. P. intendeva dire che un gruppo di australopitechi, trovata una carcassa spolpata e abbandonata dai grandi felini, fosse in grado con pietre e bastoni di scacciare uccelli e piccoli predatori necrofagi, approfittando di ciò che restava.

      Ma non è così. Ascoltando una sua conferenza in rete, l’ho sentito ripetere che un gruppo di australopitechi “disturbava un predatore” che aveva abbattuto una preda per farlo andare via e prendersi la carcassa. La cosa è talmente inverosimile che non riesco a comprendere come T. P. abbia potuto concepirla.

Un’altra svista!

     Sempre riferendosi ai “primi ominini” e al loro habitat, (continuando a supporre che si intendano gli australopitechi) T. P. ci informa che “Essi prediligevano le zone aperte vicino ai fiumi,…possibilmente nelle vicinanze di canyon o di alture ricche di grotte dove trovare riparo” (pag 62).

     Come fa T. P. ad immaginare che un mammifero di taglia medio piccola, privo di difese e la cui unica via di salvezza dai grandi predatori era quella di arrampicarsi in cima agli alberi (come fanno oggi i babbuini), possa trascorrere le sue giornate in “…zone aperte vicino ai fiumi”, vale a dire nei luoghi preferiti dai predatori per tendere agguati ad altri animali, è per me un mistero ?!

     In realtà, in uno studio di Robert J.  Blumenschine e John A. Cavallo5, per l’abilis, ma la cosa vale anche per l’australopiteco (entrambi con peso leggero e braccia lunghe atte ad una veloce arrampicata sulle cime degli alberi), affermano che l’ambiente più favorevole alla ricerca e conservazione delle carcasse parzialmente spolpate e abbandonate dai grandi predatori è la boscaglia fluviale, non le zone aperte. Vicino al fiume dove i predatori prediligevano tendere gli agguati e vicinissimi agli alberi per sfuggire a questi. La boscaglia inoltre era utile per nascondere le carcasse agli altri animali necrofagi.

     Altrettanto sconcertante è l’idea che un australopiteco, ma anche un abilis o un rudolfensis, possa ripararsi in una grotta! Una volta fiutato da un grosso felino, la grotta si sarebbe trasformata in una trappola mortale, senza via di scampo. Solo i grandi predatori potevano utilizzare come rifugio le grotte e soltanto quando l’erectus (o ergaster) imparerà ad usare il fuoco che sarà possibile sloggiare i predatori dalle grotte e insediarvisi, con un fuoco acceso dentro che scoraggiasse l’avvicinarsi dei felini.

     Il fuoco consentirà agli umani di uscire da una posizione intermedia nella catena alimentare e posizionarsi al top.

Il velociraptor di Jurassic Park

     Sempre della serie: la storia fatta con i Se e i Ma, T. P. ci esorta ad avere “una certa umiltà evoluzionistica” perché “…in molte occasioni le cose avrebbero potuto girare diversamente e ora avrebbe potuto esserci al nostro posto un’altra specie dominante, magari una società di veloci e astuti velociraptor….” (pag 334).

     Incitare gli umani ad essere più umili è cosa davvero meritoria e condivisibile, tuttavia l’esempio scelto allo scopo è proprio infelice.

     Il velociraptor, non quello di Jurassic Park, ma quello reale, del quale sono state trovate le ossa pietrificate nel deserto del Gobi, era un piccolo predatore piumato alto 50 centimetri, con una lunga coda e un peso intorno ai 15 chili, insomma un grosso tacchino. Come un carnivoro specializzato di piccola taglia sarebbe potuto diventare una specie intelligente al top della catena alimentare resta per me – profano – un oscuro mistero evolutivo.

Un mistero che non esiste

     A pag 136 T. P. ci informa che “Dopo le deboli testimonianze africane del Paleolitico inferiore [1 milione e mezzo di anni fa in Sud Africa, Tanzania e Kenya] non si registrano casi di addomesticamento certo del fuoco per più di un milione di anni. Per ritrovare i focolari nei siti archeologici bisogna giungere a ritrovamenti di 500 mila anni fa, e per di più in tutt’altra parte, in Europa”.

     Questo per T. P. rappresenta “uno dei più straordinari misteri”. (pag. 136)

     Ma il vero mistero è come abbia fatto T. P. ad inventarsi questo buco di un milione di anni. Per non farla lunga riportiamo solo tre esempi di grotte dove sono state trovate tracce certe di uso del fuoco (e non certo dopo la pubblicazione del libro), ricadenti in questo presunto milione di anni senza fuoco.

-        Petralona, Nord della Grecia , 700 mila anni fa, resti di uso del fuoco;

-        Gesher Benot Ya’aqov, Israele, uso del fuoco risalente a 790 mila anni fa;

-        Wonderwek, Sud Africa, tracce inequivocabili di focolari di un milione di anni fa.

     Sull’origine dell’uso del fuoco T. P. si tiene solo alle prove archeologiche che fanno risalire tale uso ad un milione e mezzo di anni fa.

     Richard Wrangham, docente di antropologia biologica a Harvard, consapevole che “l’archeologia non ci dice con precisione quando i nostri progenitori cominciarono a farlo [il fuoco]” cerca un’altra strada “….abbiamo denti piccoli e intestino corto come risultato dell’adattamento ad una dieta di cibi cotti.” L’abilis, apparso 2,8 milioni di anni fa e poi il rudolfensis non avevano queste caratteristiche, con l’erectus (o ergaster), apparso 1,9 - 1,8 milioni di anni fa, compaiono queste caratteristiche. Quindi, per R. Wrangham è con l’erectus che comincia l’uso sistematico del fuoco e la cottura del cibo.6

Una teoria antiquata sulla guerra

     In generale, non vi sono testimonianze archeologiche del fatto che l’uomo conoscesse l’istituzione della guerra prima della rivoluzione agricola e quindi prima della nascita del possesso territoriale,….” (pag. 254).

      Prima di entrare nel merito di questa affermazione sgombriamo il campo dalla parola “Istituzione” che di per sé dà il senso di una costruzione culturale e usiamo semplicemente la parola guerra, intesa come aggressione volontaria e preordinata di un gruppo umano verso un altro.

     Non so quali prove T. P. cerchi, che si tratti delle lance di Schöningen di 400 mila anni fa (otto lance, sette da tiro e una da caccia ravvicinata, ritrovate in una miniera di lignite a cielo aperto in Germania, insieme a numerosi altri reperti litici e ossei) o di zagaglie e frecce, tutte potevano servire per uccidere sia un’antilope che un umano.

     Nelle grotte di Cosquer, De Cognac, Pech-Merle e Sous-Grand-Lac, in Francia, ci sono raffigurazioni parietali del Paleolitico superiore di persone trafitte da lance. In una tomba risalente a 12 mila anni fa a Djebel Sahaba (Sudan) -  prima della rivoluzione agricola -  sono stati trovati due scheletri sepolti insieme trafitti da numerose frecce. Nella grotta dell’Addaura in Sicilia vi è una scena impressionante – risalente al Paleolitico finale – nella quale si vedono nove figure umane che circondano due individui stesi a terra incaprettati. Una morte lenta e atroce tocca a chi viene messo in questa posizione.

      Nella grotta di Valltorta (Spagna) vi è raffigurato un uomo morente trafitto da freccia risalente al Paleolitico. Nella grotta di Morella La Vella (Spagna), tra i tanti dipinti parietali risalenti al Paleolitico ve n’è uno che raffigura due gruppi umani, 4 da una parte e 3 dall’altra, che si combattono con archi e frecce.

     Ma a parte queste raffigurazioni rupestri chiaramente attribuibili al Paleolitico, vale a dire a prima della rivoluzione agricola, ve ne sono molte altre nelle grotte di Spagna e Francia del primo Neolitico nelle quali vi sono raffigurate vere e proprie battaglie tra gruppi umani riportate nella ricerca di Jean Guilaine e Jean Zammit.7 Ora va considerato che stante alla ricerca interdisciplinare del genetista Luca Cavalli Sforza8 l’invasione di popolazioni praticanti l’agricoltura nella Francia centro settentrionale e nel nord della Spagna è avvenuta non prima del 4000 a. C. Pertanto è presumibile che molte di quelle scene riguardino popolazioni preagricole.

     Gli scimpanzè (troglodytes), la specie a noi più vicina con la quale condividiamo il 98,4% del DNA, praticano l’infanticidio, il cannibalismo verso i piccoli, l’uccisione di cospecifici e forme di aggressioni preordinate e sistematiche verso altri gruppi di scimpanzè, volte a tenere fuori gli altri dal proprio territorio o ad ampliare i confini dello stesso.

     Gli umani praticano l’infanticidio, il cannibalismo (fino al XVII – XVIII secolo) e non solo il sapiens ma anche il neanderthal (grotta di Krapina in Croazia) e l’uccisione di cospecifici nel Neolitico come nel Paleolitico. Perché mai P.T. esclude che gli umani prima del Neolitico, vale a dire prima della rivoluzione agricola, siano esenti da scontri tra gruppi intenzionali e organizzati, classificabili come forme di guerra ? Perché non c’è - dice T. P. – il “possesso territoriale”, con la pratica dell’agricoltura nasce l’esigenza “…di controllo sulla terra coltivabile”, e quindi le guerre tra i diversi gruppi umani.

     Francamente mi sembra assolutamente una cosa insostenibile ! È ovvio che il controllo della terra coltivabile, dalla quale i popoli agricoltori traevano il loro nutrimento, poteva scatenare conflitti tra questi. Ma è altrettanto ovvio che per una tribù di cacciatori-raccoglitori il territorio nel quale erano insediati rappresentava la fonte del loro nutrimento fatto di frutta o altri vegetali raccolti oppure di animali piccoli o grandi da cacciare.

     In “Etologia della Guerra”, Eibl-Eibesfeldt ci dice che “….tutte le popolazioni di cacciatori-raccoglitori posseggono territori che di norma sono chiusi agli estranei9.

     Perdere una parte del proprio territorio significava riduzione della quantità di cibo raccoglibile o cacciabile, vale a dire: fame ! Quando, per effetto di cambiamenti climatici o a causa di un eccessivo sfruttamento delle risorse alimentari del territorio, il gruppo di cacciatori-raccoglitori o parte di essi, non era più in grado di nutrirsi sufficientemente, era costretto a cercare nuovi territori vuoti o invadere quelli di altri gruppi, la qual cosa non era certo un fatto pacifico.

     T. P. – come tanti altri nel passato – esentando i cacciatori-raccoglitori dal fenomeno guerra, nato a suo dire con la rivoluzione agricola, ci dice che c’è speranza per il futuro. Per lui la guerra è un adattamento dovuto all’acquisizione di uno stile di vita sedentario e di controllo sulle terre coltivabili, quindi non inevitabilmente iscritto nell’evoluzione del genere umano (pag. 254), e come tale prima o poi superabile.

     Marx ed Engels vedevano nella divisione in classi delle società umane, conseguente alla rivoluzione agricola, l’origine del fenomeno guerra e pertanto la fine della società divisa in classi avrebbe significato la fine della guerra.

     Per gli intellettuali repubblicani europei del XVIII secolo le guerre altro non erano che la conseguenza della volontà delle famiglie regnanti di acquisire il controllo di nuovi territori da annettere ai loro regni. L’avvento delle repubbliche avrebbe consentito ai popoli di vivere in pace.

     La storia si è incaricata di falsificare queste lodevoli intenzioni di porre fine ad un odioso fenomeno, lasciando aperto il problema del come superare questo atroce comportamento degli umani.

Una “specie bambina” o una specie al capolinea ?

     Infine, T. P. è ben consapevole delle immense potenzialità della tecnologia CRISPR-Cas9, e degli stravolgimenti che essa apporterà. “Per la prima volta sulla terra una specie biologica è capace di porre mano al proprio materiale genetico, di alterare i processi ereditari propri e di altre specie vegetali e animali.” (pag. 335) “Siamo diventati….un nuovo fattore evolutivo sulla terra, il che richiede saggezza e buon senso” (pag 335).      Tutto qui ?!

     Beh! Da un biologo evoluzionista, che è anche filosofo, che viene a proporci in questo libro l’idea che l’attuale processo di unificazione economico e culturale è sbagliato e ne va inventato, scelto, un altro ci si aspetterebbe qualcosa di più, relativamente al CRISPR-Cas9, di un semplice appello a saggezza e buon senso. Mi è capitato di ascoltare in rete una conferenza di P.T. sulla tecnologia CRISPR-Cas9 e anche qui, accanto ad un’ottima illustrazione della tecnologia e di potenzialità e pericoli nell’immediato, solo appelli alla saggezza e al buon senso.

     N. Y. Harari che ha pubblicato “Sapiens. Da animali a Dei” nel 2011 - un anno prima che la ricerca CRISPR-Cas9 fosse pubblicata, ma gli studi sulle tecnologie per modificare il genoma dall’interno erano già in corso da un decennio e più – evidenzia che queste nuove capacità umane creano un enorme problema politico e filosofico su come usarle. Esse, a suo parere, porteranno inevitabilmente nel giro di alcuni secoli a modifiche degli umani tali da configurare una nuova specie o più specie umane, quindi la fine del sapiens attuale.

     Diversamente T. P. continua a parlare del sapiens come di “una specie bambina”, il che sul piano evoluzionistico sarà anche vero, ma francamente è stucchevole.

In conclusione

     Facendo la tara all'ideologia “pluralista” e ad alcuni scivoloni dell’autore, il libro contiene importanti aggiornamenti delle teorie evoluzionistiche e soprattutto una ricostruzione puntuale della storia evolutiva degli umani, il che non è poco!

     A parte certi ideologismi non condivisibili, il testo contiene innumerevoli spunti riflessivi e come tale merita di essere letto.

Note

1.      Due ottimi testi sugli stravolgimenti indotti dalla rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale e delle biotecnologie sono: Klaus Schwab, “La quarta rivoluzione industriale”, Franco Angeli, 2016; Jerry Kaplan, “Intelligenza Artificiale, guida al futuro prossimo”, Luiss University Press, 2017.

2.      Per Giorgio Manzi i caratteri fisici degli scheletri di Dmanisi fanno pensare non ad un erectus ma a una forma intermedia tra questi e gli abilis. “L’evoluzione umana”, il Mulino, 2007, pag. 91

3.      N. Y. Harari, “Sapiens da animali a dei. Breve storia dell’umanità”, Bompiani, 2011, pag. 93

4.      J. Goodall, “Il popolo degli scimpanzé”, Rizzoli, 1a ed., 1991.

5.       R. J.  Blumenschine – J. A. Cavallo, “Comportamento alimentare ed evoluzione umana”, LE SCIENZE n. 113, Aprile 2000, pp. 46-53

6.      R. Wrangham, “L’intelligenza del fuoco”, Bollati & Boringhieri, 2014, pp. 97-118

7.      Jean Guilaine e Jean Zammit, “Le sentier de la Guerre. Visages de la violence prehistorique”, SEUIL, Paris, 2001

8.      Luca e Francesco Cavalli Sforza, ”Chi siamo. La storia della diversità umana”, Mondadori, 1993

9.      Irenaus Eibl-Eibesfeldt, “Etologia della guerra”, Bollati & Boringhieri, 1983, pag. 161

 

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