di Ugo Di Girolamo
PREMESSA
Avevo appena
finito di leggere uno strano libro di storia umana, nel quale si fa una
puntigliosa propaganda alla meditazione vipassana buddhista, quando una persona a me cara mi
disse che aveva intenzione di seguire un corso di meditazione vipassana. Nel tentativo di dissuaderla ho messo giù
degli appunti che alla fine rappresentano una critica netta non solo alle pratiche meditative propagandate
dall’autore, ma anche alla visione “filosofica naturalistica” della storia
umana sottesa nel saggio.
Il libro in
questione, titolato “Sapiens. Da animali
a Dèi. Breve storia dell’umanità”, che ha avuto un grande successo
internazionale tanto da essere tradotto in 30 lingue, è di Yuval Noah Harari,
uno storico israeliano che pratica la meditazione vipassana.
Benché non condivisibile per alcune sue finalità (la meditazione
vipassana), il testo non è per nulla banale e offre spunti di riflessione sulla storia umana di
grande interesse. Di particolare valore è l’approccio unitario alla storia
umana, considerata in tutte le sue componenti temporali e spaziali, e l’interdisciplinarità
metodologica, con ampio uso di antropologia, archeologia, etologia dei primati
ed altro.
UNA
PERIODIZZAZIONE DELLA STORIA UMANA NON CONVINCENTE
Si
possono fare tantissime obiezioni alle cose che scrive l’autore, ma qui ci
limiteremo solo ad alcune tra le più rilevanti. Harari presenta una
periodizzazione dell’intera storia umana , a partire da 2 milioni e mezzo di
anni fa, sostanzialmente raggruppabile in quattro periodi. Il primo
dall’origine del genere homo a 70.000 anni fa, nel quale le varie specie umane
altro non sono che animali di nessuna importanza, con un cervello un po’ più
sviluppato. La seconda fase va dalla
“rivoluzione cognitiva”, avvenuta tra i 70 mila e i 30 mila anni fa fino alla
rivoluzione agricola (12.000 anni fa). La terza da quest’ultima al XVII secolo
quando parte la rivoluzione scientifica; la quarta da questa fino alla fine
consapevole del sapiens moderno, che evolverà in una nuova specie, entro al
massimo una decina di secoli (pag.15).
Personalmente ho sempre preferito una
periodizzazione della storia basata sulle 4
rivoluzioni che hanno cambiato il
rapporto degli umani con la natura, nella loro lotta incessante per
procurarsi i beni per la propria esistenza: rivoluzione del fuoco, rivoluzione
agricola, rivoluzione industriale e quella dell’intelligenza artificiale e
biotecnologie, quest’ultima appena avviata.
Harari è consapevole dell’importanza dell’uso del fuoco che: “…marcò il primo grande distacco tra l’uomo e
gli altri animali”(pag.23), ma non ne trae la conseguenza fondamentale. Tracce archeologiche dell’uso
del fuoco risalgono almeno a 800 mila anni fa, ma è sicuramente da 300/400 mila
anni fa che l’uso diviene sistematico , generalizzato alle varie specie umani.
Per Harari “fino a tempi molto recenti la
posizione del genere homo nella catena alimentare è rimasta stabilmente su un
punto mediano … gli umani hanno cacciato piccole creature e raccolto quanto
potevano, essendo intanto oggetto dell’attenzione dei predatori più grandi” (pag.
21).
In realtà questa posizione mediana viene
abbandonata molto prima di quanto immagina Harari (intorno ai 70.000 anni fa)
ed è proprio grazie all’uso del fuoco. Gli umani sloggiano dalle caverne grandi
predatori (orsi, leoni delle caverne) e vi si insediano potendo qui trascorrervi la notte, con il fuoco
all’entrata, in tutta sicurezza dai grandi predatori; senza contare la
possibilità di appiccare incendi nelle savane per allontanare branchi di
predatori. Ed è proprio in questa fase – 400 mila anni fa – che l’archeologia
dimostra che gli umani cominciarono a cacciare prede di grandi dimensioni.
Uccidere un mastodonte senza avere la
possibilità di scacciare i grandi predatori, non avrebbe avuto alcun senso. Macellare
e trasportare la carne di un animale di grandi dimensioni era possibile solo a
patto di poter tenere lontani leoni, iene, orsi, lupi, ecc…Pertanto la
“posizione mediana” è stata abbandonata 400.000 anni fa.
In sintesi, con il fuoco gli umani
regolano il rapporto con i grandi predatori e si instaurano anche loro al
vertice della catena alimentare, ecco perché va considerata la prima grande
rivoluzione umana.
Per quanto riguarda la rivoluzione cognitiva
, che altro non sarebbe che “la comparsa
di nuovi modi di pensare e di comunicare , nel periodo che va da 70 mila a 30
mila anni fa” (pag. 33), non v’è accordo nel mondo scientifico, per molti studiosi queste novità comunicative e nei modi di
pensare più che la conseguenza di una improvvisa e casuale mutazione altro non
sarebbe che il frutto di un lento accumulo culturale, a partire dalla nascita
della nostra specie. In fondo il cervello del sapiens moderno di 200.000 anni
fa è perfettamente uguale, in peso volume e struttura, al nostro di oggi.
E’ davvero singolare poi che Harari,
parlando della sua seconda rivoluzione, quella scientifica avviata nel XVII
secolo, ignori in maniera plateale la prima rivoluzione scientifica, quella
avvenuta nella Grecia ellenistica a partire da IV secolo a.C.
in poi. Che fu vera scienza e non solo mero accumulo di conoscenze
pratiche basta a dimostrarlo - a parte i lavori di Euclide, Pitagora e
Archimede – un solo esempio: partendo dall’elaborazione di enti teorici
astratti gli scienziati ellenisti erano
in grado di misurare (con molta approssimazione dati gli strumenti di
misurazione dell’epoca) la lunghezza del meridiano terrestre e la distanza del
sole dalla terra. Prima rivoluzione
scientifica che simbolicamente può considerarsi conclusa con la morte di Ipazia
nel 415 d.C., ultima scienziata ellenista linciata da monaci fanatici
cristiani.
Al di là di queste osservazioni, resta
valido il tentativo di Harari di utilizzare una periodizzazione della storia che
abbia senso per tutti gli umani e non solo per gli europei.
Un’altra notazione negativa è l’insistente
e strisciante nostalgia per l’età dei cacciatori – raccoglitori che attraversa
tutto il libro. Una sorta di Eden perduto, ma senza mai affermarlo apertamente.
Ma è nel capitolo sulla rivoluzione
agricola, definita “ la più grande impostura della storia” e “la trappola del lusso”, che Harari esprime più apertamente la sua
preferenza per il modo di vita dei cacciatori – raccoglitori, che a suo dire …“passavano il loro tempo in modi più
stimolanti e variati, e correvano meno rischi di patire la fame …”
(pag.108). Insomma, se non siamo al mito dell’Eden perduto poco ci manca.
Altrettanto strano è il fatto
che la nascita delle classi sociali, conseguenza dell’agricoltura, venga
ridotta a fenomeno marginale indicato come
“…creazione di élite viziate” (pag.108) senza alcuna considerazione del
peso e del ruolo da esse svolte nei successi 10.000 anni.
STORIA DELLA FELICITA’ O PROPAGANDA PER LA MEDITAZIONE VIPASSANA?
Infine, Harari inserisce
un capitolo sulla felicità. Si badi, non sul benessere, ovvero della quantità e
qualità dei beni per l’esistenza dei quali gli umani hanno potuto mediamente
disporre nelle varie epoche storiche, ma di un sentimento soggettivo e
aleatorio qual è la felicità, difficile persino da definire. L’autore non è in grado di stabilire se sia
stato più felice l’uomo del basso o alto medioevo, l’uomo moderno o
contemporaneo o quello del mondo antico, anche se le sue simpatie vanno ai
cacciatori – raccoglitori. E conclude il capitolo dicendo che “questa
[l’assenza di una storia della felicità] è la più grossa lacuna nella nostra comprensione della storia. Faremmo
bene a cominciare a riempirla” (pag. 492).
In realtà il
capitolo, privo di alcuna conclusione,
serve ad Harari per propugnare la sua via alla felicità: la meditazione
vipassana buddhista. “Secondo il buddhismo la radice della
sofferenza non è né il dolore né la tristezza, e neanche la mancanza di senso.
Piuttosto, la vera radice della sofferenza è la ricerca incessante e inutile di
sensazioni effimere, che ci gettano in
uno stato costante di tensione, inquietudine e insoddisfazione. A causa di
questa ricerca, la mente non è mai soddisfatta” … “Ci si libera dalla
sofferenza non quando si prova questa o quella sensazione passeggera, ma quando si comprende la natura effimera di
tutte le sensazioni e si smette di ricercarle. Questo è il fine delle pratiche
di meditazione.” … “Quando la ricerca
si ferma, la mente diventa rilassata, chiara e appagata” (pag. 490).
E’ chiaro ad
Harari che “Da un punto di vista
puramente scientifico, la vita umana è assolutamente senza senso. Gli umani
sono il risultato di processi evoluzionistici che agiscono senza un obiettivo o
uno scopo”(pag. 486). Ma poi si dimentica di trarre tutte le conseguenze da
questa affermazione, per fuggire in una visione filosofica naturalistica che
possa dargli l’agognata pace e appagamento.
Per ogni specie
l’evoluzione ha determinato delle caratteristiche adattative tipiche delle
stesse, che rappresentano il suo etogramma. Quello umano può essere così
sintetizzato:
1 – specie sociale a gruppo chiuso, determinato dalle
esigenze collaborative dei componenti il gruppo, con rapporto esclusivo con il
proprio territorio e conseguentemente di ostilità verso gli altri gruppi, con
scambio – consensuale o violento – di donne da un gruppo all’altro.
2 – tendenziale coppia fissa, dato l’elevato impegno
energetico per crescere i figli e portarli all’autosufficienza.
3 – formazione all’interno del gruppo di gerarchie per
regolare i rapporti collaborativi, l’accesso ai beni e alle attività riproduttive.
4 – cervello sviluppato, che consente un ampio uso di
strumenti, una elevata capacità di comunicazione, la nascita del linguaggio
simbolico e l’elaborazione di raffinate culture trasmissibili alle generazioni
successive.
Questo complesso etogramma,
che è alla base delle svariate forme di società elaborate dai diversi gruppi
umani, si è formato sotto la spinta della selezione naturale, che ha agito con
un meccanismo di punizioni (dolore) o ricompense (gioia, felicità) volte a favorire un vantaggio riproduttivo per il
singolo.
Nel corso della
storia umana, quando l’elaborazione di avanzate culture ha posto gli umani di
fronte alla cruda realtà dell’infernale meccanismo “punizione /
ricompensa” “dolore / gioia” in molti
hanno cercato una via di fuga. In fondo, la ricerca della felicità
nell’oltretomba, per le religioni monoteiste o qui in terra per quelle
naturaliste (buddhismo, confucianesimo)
è una componente fondamentale dei racconti religiosi.
Ma la ricerca di
una via di fuga dalla realtà della selezione naturale può avvenire in forme
varie e sul piano individuale, eremiti e monaci in ultima analisi non fanno che
questo. Rinunciano alla vita di coppia, evitandosi conflittualità e affanni del
rapporto con l’altro sesso e gli oneri della crescita dei figli, ma rinunciando
a tutte le gioie e alla solidarietà che una famiglia può dare. Rinunciano alla
competizione gerarchica, una delle principali fonti di conflitti e stress per
gli umani, salvo poi riprodurla in piccolo nelle loro microcomunità (nel caso
del monachesimo). Optano per una “cultura stabile” ostile alle innovazioni,
che rappresentano turbative a un mondo immobile, senz’altro più
tranquillizzante. Tutto ciò che occorreva sapere del mondo lo si sapeva già,
era scritto nei libri della rivelazione divina (per le religioni monoteiste) o
nella filosofia di vita di quelle naturalistiche.
Per il buddhismo
– come dicevamo – ci si libera dalla sofferenza non quando si prova questa o
quella sensazione [piacevole] passeggera, ma quando si comprende la natura
effimera di tutte le sensazionie si smette di ricercarle.
Insomma, un
individuo apatico, indifferente, è quello più soddisfatto e appagato che non
soffre più.
Va da se che
l’insieme di queste posizioni di fuga dalla realtà se fossero state adottate dalla grande maggioranza degli umani
avrebbero portato o potrebbero portare alla estinzione dei
sapiens moderni.
VERSO LA FINE DEL
SAPIENS MODERNO
Un destino quindi
ineluttabile quello di dover soggiacere all’infernale meccanismo della
selezione naturale ? ! ? !
Non è detto!
In una cosa mi
trovo pienamente d’accordo con Harari, il sapiens moderno è al capolinea. Dopo
200 / 250 mila anni dalla sua nascita sta acquisendo capacità di manipolazioni
genetiche tali da poter determinare le caratteristiche genetiche dei nuovi
nascituri, quindi di una nuova specie. Allungando indefinitamente la vita e potenziando, a scapito di altre, un
insieme di caratteristiche, qualità e capacità degli attuali umani, si finirà
per determinare individui – oltre che geneticamente diversi – dai modi di
vivere e soprattutto di pensare così differenti da noi oggi tanto quanto a noi appaiono profondamente diversi
gli umani Neandertaliani.
Il processo è
appena agli inizi e offre talmente tanti vantaggi – a cominciare da un
indefinito allungamento della vita fino
alla padronanza del proprio destino – che non sarà fermato. Ma non è scontato
che l’esito di questo processo sia la nascita di una nuova specie di individui
a-mortali e dalle capacità eccezionali,
come sembra far intravedere l’autore. Può accadere che nascano più specie che, occupando la stessa nicchia
ecologica, finirebbero in conflitti interspecifici irriducibili o forse peggio
in una società castale.
In ogni caso
concordo con Harari quando dice che di queste cose bisognerebbe cominciare a discutere
apertamente nel mondo scientifico, lasciandosi alle spalle – aggiungo – il
terribile trauma dell’eugenetica nazista, perché non si tratta più di
selezionare “una razza” dominante sulle altre considerate sottospecie, ma di un
problema diverso, si tratta di capire in
quale specie vogliamo evolvere.
a parte il fatto che non conosco approfonditamente la meditazione vipassana, questo commento mi ha spinto alla lettura del libro di harari: ci sentiamo in seguito per i commenti!! un saluto affettuoso e grazie come sempre per
RispondiEliminaquesti spunti (per me preziosissimi) che spaziano dall'antropologia, all'economia, alla storia e a tanto altro!