di Ugo Di Girolamo
Premessa
Prima di addentraci nell’analisi della serie televisiva
Gomorra sgombriamo il campo da alcune osservazioni scarsamente rilevanti che
vengono continuamente ripetute da commentatori, favorevoli o contrari, al
prodotto di Saviano e degli altri 4 coautori.
La prima di queste osservazioni è che la
serie tv infanga Napoli. Se milioni di telespettatori percepiscono in maniera
assai negativa la città di Napoli la colpa non è della serie Gomorra, ma del
male che in essa c’è da due secoli, che si chiama camorra.
La seconda osservazione è che la serie
offrirebbe a “soggetti deboli” modelli imitativi altamente negativi. Ora se uno
sfigato per sentirsi qualcosa in più nelle relazioni con i suoi coetanei ha
bisogno di tagliarsi i capelli alla Savastano o atteggiarsi a Ciro l’immortale
è davvero cosa ininfluente sul piano sociale. Se poi parliamo di un soggetto
già sulla via del parassitismo predatorio, allora si può obiettare che la
filmografia d’azione è strapiena di modelli negativi imitabili. Inoltre, non è
stato mai dimostrato che siano stati i "gangster movie” a incentivare il
gangsterismo urbano in America.
L’essenza
del problema
Ciò premesso, veniamo all’essenza del problema: Gomorra la
serie rappresenta la realtà di Napoli? certo che no! Napoli, o meglio la grande
conurbazione napoletana, che include il grosso della provincia di Caserta, con
i suoi 4 milioni di abitanti, è cosa estremamente complessa; fatta di realtà
produttive e di parassitismo, di ricerca avanzata, dall'aerospaziale alla
medicina, e di ospedali fatiscenti, di sforzi individuali per migliorare la
propria condizione e di rassegnazione, di bellezze e miserie. E tutto questo
non può stare né in Gomorra, né in “Un posto al sole”, né in nessun altro film
o serie televisiva.
Ma forse la domanda più pertinente è:
Gomorra rappresenta la realtà della criminalità napoletana? Saviano dice di sì,
per lui “la vera protagonista [della
serie] è la realtà” (1), in Gomorra
si racconta “il male dal punto di vista
del male” (1) e “lo Stato è solo
un’interferenza” (1). Ma il punto di vista di Saviano non è assolutamente
condivisibile, anche “il male” nel raccontare se stesso deve tener conto che
non ci sono solo gli avversari nella feroce lotta di potere e per
l’arricchimento. Ci sono anche uomini che non ci stanno a essere taglieggiati a
angariati e li denunciano e li fanno arrestare, ci sono le organizzazioni
antiracket, anti usura e antimafia, migliaia di persone che lottano contro di
loro. C’è lo Stato con i suoi uomini, giudici, poliziotti, carabinieri, e i
suoi apparati carcerari, dove sono rinchiusi migliaia di mafiosi, oltre 600 dei
quali al 41bis, autentica “condanna a morte non eseguita”. Altro che semplice
interferenza. Ma tutto questo nella serie non c’è.
Il mondo
monodimensionale
Quello rappresentato nella serie è un
mondo monodimensionale, fatto di affari loschi e lotte di potere, con il
condimento di alcuni istinti primordiali, quello di sopravvivenza (mangiano e
dormono pure loro) e quello riproduttivo. Un mondo feroce e squallido fatto di
parassitismo predatorio eretto a “realtà vera” di Napoli, che semplifica quella
stessa componente malata della città.
Una realtà distorta che non tiene conto
di un dato elementare: la componente malata - che lo voglia o no – è costretta
a interagire col resto della società e lo Stato, e non solo con se stessa.
Ed è proprio questa distorsione della
realtà operata dalla serie che rappresenta l’aspetto più negativo del prodotto
di Saviano e degli altri 4 coautori.
L’ideologia
mafiosa
Erigere a “realtà vera” di Napoli un
mondo monodimensionale, fatto di parassitismo violento, intrighi, tradimenti e
parossistica lotta di potere, dove non solo lo Stato è ridotto a interferenza
ma anche la gente comune è pura comparsa, verso la quale ogni violenza è
normalità, significa trasmettere al pubblico televisivo quella che è l’essenza
dell’ideologia mafiosa. Il male che racconta se stesso non può non esprimere i
propri modelli di vita, i propri modi di leggere la realtà.
Per dirla con Sales (2), le bestie, le cui
gesta Saviano ci racconta, hanno questo modello nella testa:
1 – gli uomini non sono uguali, ci sono i
veri uomini, che sono loro, e i sotto uomini verso i quali tutto è lecito;
2 – l’omicidio è la giusta punizione per
gli infami e quanti non stanno alle regole dell’ordinamento mafioso;
3 – rubare allo Stato o ai sotto uomini è
cosa lecita e meritoria;
4 – la politica non interessa i veri
uomini a loro basta stare dalla parte del potere;
5 – il Dio dei mafiosi capisce e giustifica
le ragioni degli assassini.
Un modello
ideologico, comportamentale, che tra una puntata e l’altra della serie avanza
inesorabile, senza alcun contrasto dello Stato e dei 4 milioni di abitanti
della conurbazione napoletana ridotti a comparse.
E’ in questa distorsione della realtà e
nel connesso messaggio ideologico trasmesso che la serie si sostanzia in
maniera profondamente negativa, con effetti disgreganti di una realtà sociale
di per se già abbastanza compromessa.
Gomorra
libro e serie
Spesso a difesa della serie viene tirato in
ballo il libro Gomorra e il grande effetto positivo da esso avuto. Ma mettere
sullo stesso piano il libro e la serie è una operazione sbagliata. Si tratta di
due prodotti solo apparentemente simili.
In Gomorra libro vi era un “io” narrante,
un giovane cronista che con la sua vespa spaziava dal porto di Napoli a
Mondragone, passando per Secondigliano e la terra dei fuochi, raccontando lo
scempio che stava avvenendo – nel silenzio di tutti – del territorio fisico e
della realtà sociale dell’area nord della conurbazione. Ebbe quindi il grande
merito di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica italiana, aiutando in
tal modo quanti in loco combattevano contro la camorra : Stato e organizzazioni
antimafia.
In Gomorra TV, invece, possiamo solo
“ammirare” e divertirci (per quelli che ci riescono) a guardare le lotte di
potere (che appassionano sempre gli umani qualunque esse siano) tra bestie
feroci, il cui unico scopo è arricchirsi e incrementare il loro potere, il loro
imperio.
La parabola
di Saviano
Già nel libro Saviano mostrava qualche limite nella
comprensione del fenomeno mafioso; tollerabile data la giovane età. A pagina
128 di Gomorra Saviano affermava: “la
logica dell’imprenditoria criminale e il pensiero dei boss coincide col più
spinto neoliberismo”. Quindi una teoria economica rigorosamente
neoliberista sarebbe uguale al pensiero dei boss mafiosi. In una successiva
intervista al giornale francese Le Figaro, del 25- 11 -2008, Saviano ritorna
sull’argomento: “… la maggior parte dei
mafiosi … sono prima di tutto imprenditori senza etica” Insomma, nella teoria economica, versione
savianea, ci sarebbero due categorie di imprenditori, quelli con l’etica e
quelli senza, ma sempre tutti imprenditori.
Nell’intervista al Corriere della Sera
del 22 maggio 2016, alla domanda del giornalista su cosa fosse cambiato nei 10
anni trascorsi tra il libro e la serie, Saviano risponde: “credo sia cambiata anche la percezione della camorra, non più banditi
rozzi e violenti, ma avanguardia dell’economia mondiale, con regole molto
simili a quelle del capitalismo”
E’
del tutto evidente che una tale confusione tra capitalismo e fenomeno mafioso
non può che avere un'unica matrice ideologica: un radicale anticapitalismo e
una visione casereccia della teoria marxiana del plusvalore.
La nozione di imprenditoria mafiosa
Chi per primo
introdusse in Italia la nozione di imprenditoria mafiosa fu Pino Arlacchi nel
1983. Ma Arlacchi parte dalla teoria economica di Joseph Schumpeter e prova a
inserire l’imprenditore mafioso nella categoria economica degli imprenditori.
Il mafioso che investe nell’economia legale, in prima persona o mediante
prestanomi, - dice il sociologo – è da considerarsi imprenditore a tutti gli
effetti perché anche lui introduce un’importante innovazione : il “… trasferimento del metodo mafioso
nell’organizzazione aziendale del lavoro e nella conduzione degli affari esterni.” (3)
Nel territorio di
sua competenza il cosiddetto imprenditore camorrista non ammette concorrenza,
né contrattazione sindacale, inoltre usufruisce di capitali facili di
provenienza illecita. Sono questi i tre vantaggi decisivi di cui gode l’impresa
mafiosa che, sul piano economico, la portano a godere di un profitto
monopolistico, afferma Arlacchi. Ma proprio questa conclusione spinge a dire
che l’uso che egli fa della definizione di imprenditore di Schumpeter non è
corretto.
Per l’economista
austriaco infatti è la funzione innovativa nei processi produttivi a definire
la figura dell’imprenditore e a caratterizzare il profitto economico.
l’introduzione di una innovazione positiva nella produzione di un bene
economico consente un guadagno aggiuntivo non imputabile ad altri fattori, che
rappresenta il profitto imprenditoriale; ma in un libero mercato la concorrenza
tenderà ad annullare questo profitto, l’imprenditore - se vuole rimanere tale –
è costretto a introdurre altre innovazioni. E’ questo per Schumpeter il
meccanismo dinamico che spinge sempre avanti la produttività del lavoro nel
sistema capitalistico, consentendo lo sviluppo economico. (4) L’altro elemento che erode il
profitto e spinge l’imprenditore all’innovazione è dato dalla contrattazione
sindacale.
Impedire
concorrenza e contrattazione sindacale, usufruire di capitali “gratis” e - si
aggiunga - controllare in maniera violenta le forniture nonché la distribuzione
dei prodotti – nel caso dell’imprenditoria mafiosa – significa negare la
funzione del mercato, stravolgere il sistema produttivo e bloccare
l’innovazione, costruendo una sorta di statico monopolio totale.
Schumpeter mette
ben in chiaro come il guadagno di monopolio è cosa diversa dal profitto, si
tratta di fenomeni economici completamente differenti.
Per Centorrino il
boss che investe nell’economia legale, trasferendovi il metodo mafioso, finisce
con il creare un Monopolio innaturale, intendendo
con ciò un monopolio che non si è formato sulla base di una dialettica
concorrenziale di natura economica, bensì eliminando con la costrizione
violenta i concorrenti. (5)
Pertanto, più che
a un imprenditore ci sembra più corretto paragonare il boss che investe
nell’economia legale al percettore di una rendita, a un barone che difende con
le armi le rendite del suo feudo. Altro che “avanguardia dell’economia mondiale”. In conclusione, Gomorra la
serie rappresenta solo il pensiero di Saviano e dei suoi coautori e non la
realtà di Napoli. A distanza di 10 anni dal libro, le confusioni e i limiti di
Saviano nella percezione del fenomeno mafioso non sono più sopportabili.
(1)
Intervista al Corriere della Sera del 22 maggio 2016
(2) Isaia
Sales, “Storia mafiosa dell’Italia”, 2015, pp. 209/210
(3) P.
Arlacchi, la mafia imprenditri ce, 1983, pag. 109
(4) J
Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni 1971, pp. 169 – 199
(5) M.
Centorrino, A. La Spina, G. Signorino, Il nodo gordiano. Criminalità mafiosa e
sviluppo del Mezzogiorno, Laterza 1999, pag. 51
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