12 giu 2016

Gomorra e la parabola di Saviano

di Ugo Di Girolamo
Premessa
    Prima di addentraci nell’analisi della serie televisiva Gomorra sgombriamo il campo da alcune osservazioni scarsamente rilevanti che vengono continuamente ripetute da commentatori, favorevoli o contrari, al prodotto di Saviano e degli altri 4 coautori.
    La prima di queste osservazioni è che la serie tv infanga Napoli. Se milioni di telespettatori percepiscono in maniera assai negativa la città di Napoli la colpa non è della serie Gomorra, ma del male che in essa c’è da due secoli, che si chiama camorra.
    La seconda osservazione è che la serie offrirebbe a “soggetti deboli” modelli imitativi altamente negativi. Ora se uno sfigato per sentirsi qualcosa in più nelle relazioni con i suoi coetanei ha bisogno di tagliarsi i capelli alla Savastano o atteggiarsi a Ciro l’immortale è davvero cosa ininfluente sul piano sociale. Se poi parliamo di un soggetto già sulla via del parassitismo predatorio, allora si può obiettare che la filmografia d’azione è strapiena di modelli negativi imitabili. Inoltre, non è stato mai dimostrato che siano stati i "gangster movie” a incentivare il gangsterismo urbano in America.

L’essenza del problema

      Ciò premesso, veniamo all’essenza del problema: Gomorra la serie rappresenta la realtà di Napoli? certo che no! Napoli, o meglio la grande conurbazione napoletana, che include il grosso della provincia di Caserta, con i suoi 4 milioni di abitanti, è cosa estremamente complessa; fatta di realtà produttive e di parassitismo, di ricerca avanzata, dall'aerospaziale alla medicina, e di ospedali fatiscenti, di sforzi individuali per migliorare la propria condizione e di rassegnazione, di bellezze e miserie. E tutto questo non può stare né in Gomorra, né in “Un posto al sole”, né in nessun altro film o serie televisiva.
      Ma forse la domanda più pertinente è: Gomorra rappresenta la realtà della criminalità napoletana? Saviano dice di sì, per lui “la vera protagonista [della serie] è la realtà” (1), in Gomorra si racconta “il male dal punto di vista del male” (1) e “lo Stato è solo un’interferenza” (1). Ma il punto di vista di Saviano non è assolutamente condivisibile, anche “il male” nel raccontare se stesso deve tener conto che non ci sono solo gli avversari nella feroce lotta di potere e per l’arricchimento. Ci sono anche uomini che non ci stanno a essere taglieggiati a angariati e li denunciano e li fanno arrestare, ci sono le organizzazioni antiracket, anti usura e antimafia, migliaia di persone che lottano contro di loro. C’è lo Stato con i suoi uomini, giudici, poliziotti, carabinieri, e i suoi apparati carcerari, dove sono rinchiusi migliaia di mafiosi, oltre 600 dei quali al 41bis, autentica “condanna a morte non eseguita”. Altro che semplice interferenza. Ma tutto questo nella serie non c’è.

Il mondo monodimensionale

      Quello rappresentato nella serie è un mondo monodimensionale, fatto di affari loschi e lotte di potere, con il condimento di alcuni istinti primordiali, quello di sopravvivenza (mangiano e dormono pure loro) e quello riproduttivo. Un mondo feroce e squallido fatto di parassitismo predatorio eretto a “realtà vera” di Napoli, che semplifica quella stessa componente malata della città.
      Una realtà distorta che non tiene conto di un dato elementare: la componente malata - che lo voglia o no – è costretta a interagire col resto della società e lo Stato, e non solo con se stessa.
      Ed è proprio questa distorsione della realtà operata dalla serie che rappresenta l’aspetto più negativo del prodotto di Saviano e degli altri 4 coautori.

L’ideologia mafiosa

      Erigere a “realtà vera” di Napoli un mondo monodimensionale, fatto di parassitismo violento, intrighi, tradimenti e parossistica lotta di potere, dove non solo lo Stato è ridotto a interferenza ma anche la gente comune è pura comparsa, verso la quale ogni violenza è normalità, significa trasmettere al pubblico televisivo quella che è l’essenza dell’ideologia mafiosa. Il male che racconta se stesso non può non esprimere i propri modelli di vita, i propri modi di leggere la realtà.
      Per dirla con Sales (2), le bestie, le cui gesta Saviano ci racconta, hanno questo modello nella testa:
          1 – gli uomini non sono uguali, ci sono i veri uomini, che sono loro, e i sotto uomini verso i quali tutto è lecito;
          2 – l’omicidio è la giusta punizione per gli infami e quanti non stanno alle regole dell’ordinamento mafioso;
          3 – rubare allo Stato o ai sotto uomini è cosa lecita e meritoria;
          4 – la politica non interessa i veri uomini a loro basta stare dalla parte del potere; 
          5 – il Dio dei mafiosi capisce e giustifica le ragioni degli assassini.
Un modello ideologico, comportamentale, che tra una puntata e l’altra della serie avanza inesorabile, senza alcun contrasto dello Stato e dei 4 milioni di abitanti della conurbazione napoletana ridotti a comparse.
      E’ in questa distorsione della realtà e nel connesso messaggio ideologico trasmesso che la serie si sostanzia in maniera profondamente negativa, con effetti disgreganti di una realtà sociale di per se già abbastanza compromessa.

Gomorra libro e serie

     Spesso a difesa della serie viene tirato in ballo il libro Gomorra e il grande effetto positivo da esso avuto. Ma mettere sullo stesso piano il libro e la serie è una operazione sbagliata. Si tratta di due prodotti solo apparentemente simili.
    In Gomorra libro vi era un “io” narrante, un giovane cronista che con la sua vespa spaziava dal porto di Napoli a Mondragone, passando per Secondigliano e la terra dei fuochi, raccontando lo scempio che stava avvenendo – nel silenzio di tutti – del territorio fisico e della realtà sociale dell’area nord della conurbazione. Ebbe quindi il grande merito di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica italiana, aiutando in tal modo quanti in loco combattevano contro la camorra : Stato e organizzazioni antimafia.
      In Gomorra TV, invece, possiamo solo “ammirare” e divertirci (per quelli che ci riescono) a guardare le lotte di potere (che appassionano sempre gli umani qualunque esse siano) tra bestie feroci, il cui unico scopo è arricchirsi e incrementare il loro potere, il loro imperio.

La parabola di Saviano

     Già nel libro Saviano mostrava qualche limite nella comprensione del fenomeno mafioso; tollerabile data la giovane età. A pagina 128 di Gomorra Saviano affermava: “la logica dell’imprenditoria criminale e il pensiero dei boss coincide col più spinto neoliberismo”. Quindi una teoria economica rigorosamente neoliberista sarebbe uguale al pensiero dei boss mafiosi. In una successiva intervista al giornale francese Le Figaro, del 25- 11 -2008, Saviano ritorna sull’argomento: “… la maggior parte dei mafiosi … sono prima di tutto imprenditori senza etica”  Insomma, nella teoria economica, versione savianea, ci sarebbero due categorie di imprenditori, quelli con l’etica e quelli senza, ma sempre tutti imprenditori.
      Nell’intervista al Corriere della Sera del 22 maggio 2016, alla domanda del giornalista su cosa fosse cambiato nei 10 anni trascorsi tra il libro e la serie, Saviano risponde: “credo sia cambiata anche la percezione della camorra, non più banditi rozzi e violenti, ma avanguardia dell’economia mondiale, con regole molto simili a quelle del capitalismo”
     E’ del tutto evidente che una tale confusione tra capitalismo e fenomeno mafioso non può che avere un'unica matrice ideologica: un radicale anticapitalismo e una visione casereccia della teoria marxiana del plusvalore.

La nozione di imprenditoria mafiosa
      Chi per primo introdusse in Italia la nozione di imprenditoria mafiosa fu Pino Arlacchi nel 1983. Ma Arlacchi parte dalla teoria economica di Joseph Schumpeter e prova a inserire l’imprenditore mafioso nella categoria economica degli imprenditori. Il mafioso che investe nell’economia legale, in prima persona o mediante prestanomi, - dice il sociologo – è da considerarsi imprenditore a tutti gli effetti perché anche lui introduce un’importante innovazione : il “… trasferimento del metodo mafioso nell’organizzazione aziendale del lavoro e nella conduzione degli affari esterni.” (3)
      Nel territorio di sua competenza il cosiddetto imprenditore camorrista non ammette concorrenza, né contrattazione sindacale, inoltre usufruisce di capitali facili di provenienza illecita. Sono questi i tre vantaggi decisivi di cui gode l’impresa mafiosa che, sul piano economico, la portano a godere di un profitto monopolistico, afferma Arlacchi. Ma proprio questa conclusione spinge a dire che l’uso che egli fa della definizione di imprenditore di Schumpeter non è corretto.
     Per l’economista austriaco infatti è la funzione innovativa nei processi produttivi a definire la figura dell’imprenditore e a caratterizzare il profitto economico. l’introduzione di una innovazione positiva nella produzione di un bene economico consente un guadagno aggiuntivo non imputabile ad altri fattori, che rappresenta il profitto imprenditoriale; ma in un libero mercato la concorrenza tenderà ad annullare questo profitto, l’imprenditore - se vuole rimanere tale – è costretto a introdurre altre innovazioni. E’ questo per Schumpeter il meccanismo dinamico che spinge sempre avanti la produttività del lavoro nel sistema capitalistico, consentendo lo sviluppo economico. (4) L’altro elemento che erode il profitto e spinge l’imprenditore all’innovazione è dato dalla contrattazione sindacale.
      Impedire concorrenza e contrattazione sindacale, usufruire di capitali “gratis” e - si aggiunga - controllare in maniera violenta le forniture nonché la distribuzione dei prodotti – nel caso dell’imprenditoria mafiosa – significa negare la funzione del mercato, stravolgere il sistema produttivo e bloccare l’innovazione, costruendo una sorta di statico monopolio totale.
      Schumpeter mette ben in chiaro come il guadagno di monopolio è cosa diversa dal profitto, si tratta di fenomeni economici completamente differenti.
      Per Centorrino il boss che investe nell’economia legale, trasferendovi il metodo mafioso, finisce con il creare un Monopolio innaturale, intendendo con ciò un monopolio che non si è formato sulla base di una dialettica concorrenziale di natura economica, bensì eliminando con la costrizione violenta i concorrenti. (5)
      Pertanto, più che a un imprenditore ci sembra più corretto paragonare il boss che investe nell’economia legale al percettore di una rendita, a un barone che difende con le armi le rendite del suo feudo. Altro che “avanguardia dell’economia mondiale”. In conclusione, Gomorra la serie rappresenta solo il pensiero di Saviano e dei suoi coautori e non la realtà di Napoli. A distanza di 10 anni dal libro, le confusioni e i limiti di Saviano nella percezione del fenomeno mafioso non sono più sopportabili.
(1) Intervista al Corriere della Sera del 22 maggio 2016
(2) Isaia Sales, “Storia mafiosa dell’Italia”, 2015, pp. 209/210
(3) P. Arlacchi, la mafia imprenditri ce, 1983, pag. 109
(4) J Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni 1971, pp. 169 – 199

(5) M. Centorrino, A. La Spina, G. Signorino, Il nodo gordiano. Criminalità mafiosa e sviluppo del Mezzogiorno, Laterza 1999, pag. 51

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