di Ugo Di Girolamo
Nel giugno del 2009 pubblicavo, con la casa
editrice Guida di Napoli, “Mafie,
politica, pubblica amministrazione”, sottotitolo: “E’ possibile sradicare il fenomeno mafioso dall’Italia?”. La risposta che davo a questo interrogativo era sostanzialmente positiva, a condizione che il ceto politico italiano si rinnovasse profondamente, partendo dalla consapevolezza delle proprie responsabilità nella continua riproduzione del fenomeno mafioso, oppure che il movimento antimafia nel suo insieme costringesse i politici a emendarsi da queste responsabilità.
La tesi sostenuta nel saggio era che le
mafie, unitariamente considerate, fossero una peculiare forma di criminalità
organizzata, diversa da tutte le altre, per il particolare rapporto che esse
instaurano con il ceto politico e con la pubblica amministrazione, rapporto che
consente loro di penetrare nelle istituzioni dello Stato stravolgendone le
finalità e piegandole ai propri interessi.
Il rapporto tra politici e pubblica
amministrazione da una parte e clan mafiosi dall’altra si realizza mediante la
corruzione. In cambio di voti al politico e soldi al funzionario statale, il mafioso ottiene illecitamente
tutti quegli atti (appalti, concessioni, assunzioni clientelari, …) a lui
indispensabili per succhiare soldi dal bilancio pubblico o riciclare proventi
da usura, estorsioni e altre attività illegali, nell’economia legale.
In sintesi, la corruzione pubblica
rappresenta il terreno sul quale avviene l’osmosi tra politici, funzionari
pubblici e clan mafiosi.
Ne consegue che ogni tentativo di
smantellare definitivamente le mafie, oltre a una rigorosa lotta sul piano
militare verso i clan, ha bisogno di spezzare il legame mafie – politica – pubblica amministrazione
conducendo una battaglia contro la corruzione.
Impedire ai politici collusi di compiere quegli atti corruttivi dei
quali ha bisogno il clan significa chiudere la porta di ingresso nello Stato,
trasformando la criminalità organizzata di tipo mafioso in generica criminalità
comune, facilmente sbaragliabile e in ogni caso non più capace di produrre effetti devastanti sullo Stato e l’economia.
Il carattere “politico” della criminalità di
tipo mafioso era noto sin dai tempi di Marco Monnier (La camorra, 1863) e di
Leopoldo Franchetti (Condizioni politiche e amministrative della Sicilia,
1877), ma mai è stato tenuto in considerazione nella lotta alle mafie. Si è
sempre perseguito il clan mafioso, ma mai ci si è applicati a reprimere quella
quota di politici che con le mafie trescava..
Nel 1982 veniva approvato l’articolo 416bis
del codice penale che riconosceva, sul piano giuridico, la specificità della
criminalità organizzata di tipo mafioso e il suo carattere “politico”. Ma
bisognerà aspettare il 1991 per vedere la prima norma che tendeva a spezzare i
legami tra clan e politici locali. La legge 221/91, che prevedeva lo
scioglimento di comuni e province, cui furono successivamente aggiunte le ASL,
sulla base di sospetti indiziari di collusioni con i clan. Seguì, a opera della
magistratura, il concorso esterno in associazione mafiosa e infine l’art.
416ter che puniva il voto di scambio con i clan, ma solo in caso di dazioni di
denaro. Cosa quest’ultima che raramente si verifica essendo i clan interessati
non ai soldi dei politici ma a
quell’insieme di atti corruttivi che consentono loro di penetrare nell’economia
legale e di garantirsi appalti e assunzioni clientelari.
Alla prova dei fatti – dopo vari anni di applicazione –
questi strumenti si sono dimostrati del tutto incapaci di spezzare i legami tra
mafie, politici e funzionari pubblici.
Per soprammercato, nell’agosto del 2009
(Governo Berlusconi), la legge 221/91 veniva fortemente ridimensionata. In sintesi a oltre 30 anni della presa
d’atto giuridica della “politicità” del fenomeno mafioso, con l’introduzione
del 413bis, i legami tra politici, funzionari pubblici e mafiosi continuano
imperterriti a riprodursi e estendersi.
Da quando pubblicai la tesi in questione e
fino all’autunno del 2011 ebbi parecchi dubbi sulla sua validità teorica;
possibile che solo io, un oscuro analista del fenomeno della provincia di
Caserta, mi rendessi conto che la lotta alle mafie – per avere un esito definitivo - andasse condotta su due fronti: quello militare verso i clan e
anticorruzione verso i politici e funzionari pubblici collusi?
Questi dubbi svanirono a fine 2011
quando due magistrati di Palermo, del calibro di Antonino Di Matteo e
Piergiorgio Morosini, pubblicarono due libri (con Aliberti editore il primo e
Rubbettino il secondo) nei quali espressamente, a voce alta, veniva affermato
che:
2. La priorità assoluta è quella di spezzare i legami tra mafie e politica, colpendo sul terreno della corruzione;
3. Senza una lotta sui due fronti, militare e anticorruzione, si possono anche ottenere buoni risultati ma mai porre fine al fenomeno mafioso.
Ma perché, a distanza di due anni, questa innovativa linea
antimafia non viene recepita sia dalla miriade di associazioni antimafia che
dai diretti interessati, il ceto politico?
Partiamo dai politici per capire i motivi
del silenzioso rifiuto. Il ceto politico italiano, sin dal 1861, si è sempre
rifiutato di sottostare ai controlli di legalità. Il nuovo Stato unitario è
nato ereditando dal regno Sabaudo un
ordinamento che prevedeva la dipendenza della magistratura dal potere politico
(C.G. Rossetti, “L’attacco allo Stato di diritto”, Liguori, 2001). Questa
subordinazione si è protratta per quasi
un secolo, fino al 1958, anno di implementazione del principio
costituzionale dell’indipendenza della
magistratura con la costituzione del Consiglio Superiore della
Magistratura (CSM), organo di autogoverno
dei magistrati.
Questa subordinazione era funzionale
all’esigenza del ceto politico di avere le mani libere per praticare
clientelismo e corruzione, di fatto considerati strumenti indispensabili alla
creazione del consenso politico.
Un decennio dopo la nascita del CSM
cominciarono a sentirsi gli effetti di questa indipendenza, con la messa sotto
accusa per corruzione di numerosi politici. Pretori d’assalto furono chiamati i
primi magistrati che attaccarono il santuario della politica. Il processo
culminò, negli anni 93/94, in quello che è passato alla storia con due espressioni: “mani pulite” e
“Tangentopoli”; in quegli anni la magistratura mise a nudo la dilagante corruzione del ceto politico
italiano.
La reazione dei politici a Tangentopoli si sviluppò su due
linee:
1. La corruzione cambia natura, da
clientelismo e tangente diretta si passa
a forme più complesse e mediate da soggetti
terzi, attraverso l’uso di contratti atipici, quali “global
service”, “project financing”, “general contractor”
e altri similari, mediante i quali capitali pubblici e privati si mischiano
opacizzando le transazioni ; inoltre, attraverso la creazione di oltre 15.000
Spa e Srl promosse da comuni, province,
regioni e ministeri , società di diritto privato svincolate dalle regole della
contabilità di Stato, con le quali si può praticare tranquillamente
clientelismo e corruzione. Società che secondo i risultati di un recentissimo
studio della Confindustria costano all'erario pubblico 22 miliardi di euro
all'anno di perdite. E’ la tesi, questa,
di Ivan Ciccone, uno dei massimi studiosi del fenomeno corruttivo, pubblicata
in Narcomafie, n.12 2009.
Lo stesso sdoppiamento del reato di
concussione, in “… per costrizione” e “… per induzione” , prevedendo la reità del
concusso nel secondo caso, va nella direzione di rendere più difficile
l’individuazione dei colpevoli.
Ma perché nel movimento civile antimafia la “linea Di Matteo
– Morosini “ non ha fatto breccia?
Provo a spiegarlo con due esempi: “Libera” e
Narcomafie.
1. Libera è una organizzazione che si dichiara
laica, ma è gestita dai preti cattolici. Nella logica di questa organizzazione
il valore della legalità va affermato con l’esempio. Costruire, intorno alla
gestione dei beni confiscati ai mafiosi, nuclei produttivi che agiscono nella
più completa legalità dovrà portare – con l’esempio di vita – all’affermazione
generale del valore della legalità e al contestuale rifiuto di corruzione e
clientelismo. E’ evidente che così come
il messaggio evangelico non si è mai compiuto e la società dell’amore non si è
mai realizzata, è altrettanto ipotizzabile che con l’esempio di vita dei nuclei
di legalità non si riesca mai ad affermare in maniera generalizzata il valore
della legalità.
Negli ultimi anni Libera si è impegnata per
una modifica dell’art. 413ter (voto di scambio mafioso) che includesse non solo i soldi ma anche
altre utilità e per la confisca dei beni dei corrotti.
E’ evidente che la modifica del 413ter
renderebbe molto più efficace l’azione della magistratura, ma di per sé questo
nuovo strumento non risolverebbe il problema dei rapporti mafie – politica,
servirebbe molto probabilmente solo a punire qualche politico incauto. Per
quanto riguarda la confisca dei beni dei corrotti, da affidare alla gestione
dei gruppi per la legalità, altro non è che una estensione della linea
“dell’esempio di vita”.
2. Narcomafie è una rivista
qualificata che tratta delle problematiche del fenomeno mafioso. Nel 2011 ho
provato a sollecitare Narcomafie, con un
articolo che richiamava l’attenzione sulla necessità di condurre una lotta alla
corruzione per bloccare la penetrazione delle mafie nello Stato, ottenendo un netto rifiuto a pubblicare l’articolo (pur
avendo dichiarato la mia disponibilità a ogni modifica ritenuta necessaria a condizione che
la tesi sostenuta non venisse stravolta). Qualche settimana dopo avendo letto
il libro di Di Matteo ritornai alla carica, ma questa volta non si degnarono
neanche più di rispondermi.
E’
lapalissiano che un gruppo di giornalisti che vive scrivendo contro la mafia
istintivamente, certamente in buona
fede, è portato a non occuparsi di
strategie risolutive della questione; senza la mafia il mensile Narcomafie non
ha più ragione di esistere.
In conclusione, stante l’ostinato rifiuto del ceto politico a
sottostare ai controlli di legalità e perdurando la sordità delle principali
organizzazioni civili antimafia ad una lotta sui due fronti (militare e
anticorruzione) il problema mafioso è al momento irrisolvibile.
Bisognerà
dunque abituarsi a convivere con le mafie?
No! Questo non è possibile. Il fenomeno mafioso è per sua natura
espansivo (Violante, “Il ciclo mafioso”, 2004), tende a occupare sempre nuovi
territori e a controllare tutto nell’ambito del territorio del clan. L’esito
ultimo di questo processo è lo Stato mafia, qualificato da Lucio Caracciolo –
Limes n.2 2005 – come quello Stato dove
il capo politico e quello mafioso coincidono nella stessa persona. Di questi
Stati ne abbiamo già esempi in Europa orientale (Montenegro, Trasnistria,
Moldavia, …).
Non ci resta, quindi, che sperare – in fondo
la storia è imprevedibile – che prima o poi maturi nella politica un
orientamento volto ad affermare, con leggi anticorruzione e anti clientelismo, il valore della legalità,
chiudendo la porta dello Stato alla penetrazione criminale. A quel punto sarebbe solo questione di
qualche altro anno e la questione mafiosa si avvierebbe a soluzione.
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