di Ugo Di Girolamo
La vicenda contemporanea dello scioglimento del consiglio comunale di Reggio Calabria e dell’arresto dell’assessore regionale lombardo ha rilanciato sui media l’attenzione sui rapporti tra mafie e politica.
“Oggi non c’è più
distinzione tra Nord e Sud, tutta l’Italia è diventata una questione di
infiltrazione nell’economia, nella politica e nella pubblica amministrazione”,
ha dichiarato Pietro Grasso procuratore nazionale antimafia.
E’ da 150 anni
che questo rapporto esiste e si riproduce ad ogni cambio di regime in Italia. Non
si è mai interrotto! neppure in
occasione della più grande repressione di massa contro le mafie avvenuta tra il
1926 e il 1929 con il prefetto Cesare Mori. In effetti lo stesso Mori ne fece
le spese quando, dopo aver letteralmente sgominato le cosche mafiose siciliane,
si applicò a colpire i politici collusi, fu subito promosso senatore e rimosso.
E quando dopo qualche anno si accorse che i clan si erano ricostituiti e tentò
di riaprire la questione fu rozzamente
tacitato al senato.
Solitamente
si crede che il problema del rapporto mafie-politica si riferisca a quei soggetti
che trescano con i clan e il resto dei politici è, come dire, vittima
inconsapevole di queste tresche, fatte di corruzione, clientelismo e voto di
scambio.
E’ l’immagine
che, ad esempio, ha provato a dare di se il governatore Formigoni, ignaro dei
traffici di Zambetti.
Le
responsabilità del ceto politico
Nella nostra storia unitaria vi sono stati politici
coraggiosi che hanno combattuto le mafie fino al sacrificio della vita, come il
sindaco socialista di Corleone Bernardino Verri, ucciso nel 1914, il
democristiano Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, ammazzato
nel 1980, e Pio La Torre , autore della legge di esproprio dei beni ai mafiosi,
ucciso nel 1982. Tolta questa esigua minoranza la questione dei rapporti tra
mafia e politica è cosa che riguarda tutti i politici.
In sintesi, il
ceto politico italiano può essere diviso in tre categorie: la prima una piccola schiera
che ha combattuto apertamente le mafie, spesso pagando con la vita; all’opposto, la seconda categoria , numerosa ma
non maggioritaria, che con le mafie ha trescato in tutti i modi possibili e
immaginabili. Infine, la terza, la
più numerosa, quella dei “FINTI TONTI”; politici convinti che il problema
mafioso non li riguarda e che sia una
questione da gestire con la delega a polizia e magistratura, salvo poi fare quadrato
contro i magistrati o chiunque altro provasse a proporre soluzioni atte a
spezzare il legame mafie-politica.
Le prime norme
Benché questo
rapporto fosse noto sin dai primi anni del nuovo Stato unitario, grazie alle
pubblicazioni di intellettuali come Marco Monnier (1863), Pasquale Villari
(1875) e Leopoldo Franchetti (1877), bisognerà aspettare ben 128 anni dalla
prima denuncia per avere la prima norma tesa a spezzare il legame, la legge
n.221 del 1991 (scioglimento degli enti locali infiltrati). Seguirà il concorso
esterno in associazione mafiosa e il 416ter del C.P., quest’ultimo punisce il
voto di scambio, ma solo se c’è scambio di denaro, la qualcosa avviene di rado
in quanto i clan più che ai soldi del politico sono interessati ai suoi “favori”.
A distanza di un
ventennio, questi tre strumenti si sono dimostrati del tutto inadeguati a spezzare il legame mafie-politica e a
impedire la penetrazione dei clan nello Stato.
Benché la legge
221/91 sia stata drasticamente ridimensionata,
da un provvedimento del governo Berlusconi nell’agosto del 2009, si
continua a sciogliere comuni a tutto spiano e non più solo al Sud, a
dimostrazione dell’aggravarsi del problema delle infiltrazioni mafiose nello
Stato.
Che fare dunque?
In quale modo può
essere spezzato questo legame? che poi è l’anticamera di una generale
penetrazione nell'economia e nella società Italia?
Per capire quali
strumenti approntare occorre riflettere sullo scambio che avviene nel concreto
tra politico colluso e mafioso. Al primo
interessano i voti per essere eletto, al secondo interessano i “favori”
del politico, ossia abusi d’ ufficio, turbativa d’asta, licenze illegittime, atti
clientelari, ecc. …, in sintesi atti
corruttivi. I magistrati Nino Di Matteo, Piergiorgio Morosini e Roberto
Scarpinato confermano con le loro pubblicazioni che la corruzione è il terreno
sul quale avviene l’incontro tra politici e mafiosi. E’ la chiave d’ingresso
nello Stato, dice espressamente Di Matteo.
Ne consegue che
il terreno privilegiato di lotta alle mafie, per spezzare il legame con i
politici, è quello della lotta alla corruzione.
Impedendo ai politici (e ai dipendenti pubblici) di commettere atti
corruttivi si impedisce lo scambio con i mafiosi.
Ma è qui che sorgono
i problemi. Politici collusi e “finti tonti”, ovvero conniventi e conviventi
fanno quadrato contro ogni ipotesi di reale lotta alla corruzione.
La normativa anticorruzione
Sorvolando sull'inutile ddl-Severino, del
tutto privo di ogni valenza concreta di lotta alla corruzione, soffermiamoci un
attimo sulla proposta di legge di Marco Travaglio e del giornale Il Fatto
Quotidiano, risalente a fine 2010. La proposta di Travaglio mira a recepire
integralmente le indicazioni contenute nella Convenzione di Strasburgo e non
solo un pezzettino, come nel caso del ddl-Severino. Inoltre, vuole modificare i
tempi di prescrizione della ex-Cirielli e ripenalizzare il falso in bilancio.
Una legge siffatta, se passasse in
parlamento, non sarebbe ancora adatta a stroncare la corruzione, perché non
prevede la costruzione di una rete di controlli preventivi e soprattutto non
inciderebbe se non marginalmente sul flusso principale di corruzione che passa
nelle oltre 15.000 Spa, Srl e partecipate promosse da comuni, province, regioni
e ministeri, non soggette ai controlli della contabilità di Stato in quanto
società di diritto privato.
Purtuttavia la proposta Travaglio sarebbe
un buon inizio, atta a farci recuperare qualche posto nella vergognosa
posizione dell’Italia nella classifica di Trasparency International .
Ma se guardate ai
programmi e ai propositi dichiarati in merito vi accorgerete che né i vecchi
partiti, né i nuovi movimenti politici (Fare Futuro, Fermare il declino,
Movimento 5 stelle) sono interessati ad una lotta vera alla corruzione e si
limitano alla delega nel contrasto alle mafie, eccetto il Movimento 5 stelle,
che oltre a non avere alcuna indicazione anticorruzione nel programma nazionale
sfugge anche alla questione mafiosa.
Ecco quindi delineata la principale
responsabilità del ceto politico italiano vecchio e nuovo (eccetto quei pochi
coraggiosi) nel consentire alle mafie di entrare nello Stato, dilagare
nell’economia e riprodursi continuamente superando ogni colpo che magistrati e
forze dell’ordine gli assestano.
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