15 ott 2012

Dopo Reggio e Milano, qualche considerazione sui rapporti tra mafie e politica


di Ugo Di Girolamo
La vicenda contemporanea dello scioglimento del consiglio comunale di Reggio Calabria e dell’arresto dell’assessore regionale lombardo ha rilanciato sui media l’attenzione sui rapporti tra mafie e politica.

“Oggi non c’è più distinzione tra Nord e Sud, tutta l’Italia è diventata una questione di infiltrazione nell’economia, nella politica e nella pubblica amministrazione”, ha dichiarato Pietro Grasso procuratore nazionale antimafia.

     E’ da 150 anni che questo rapporto esiste e si riproduce ad ogni cambio di regime in Italia. Non si è mai interrotto!  neppure in occasione della più grande repressione di massa contro le mafie avvenuta tra il 1926 e il 1929 con il prefetto Cesare Mori. In effetti lo stesso Mori ne fece le spese quando, dopo aver letteralmente sgominato le cosche mafiose siciliane, si applicò a colpire i politici collusi, fu subito promosso senatore e rimosso. E quando dopo qualche anno si accorse che i clan si erano ricostituiti e tentò di riaprire la questione  fu rozzamente tacitato al senato.

      Solitamente si crede che il problema del rapporto mafie-politica si riferisca a quei soggetti che trescano con i clan e il resto dei politici è, come dire, vittima inconsapevole di queste tresche, fatte di corruzione, clientelismo e voto di scambio.
     E’ l’immagine che, ad esempio, ha provato a dare di se il governatore Formigoni, ignaro dei traffici di Zambetti.

Le responsabilità del ceto politico

     Nella nostra storia unitaria vi sono stati politici coraggiosi che hanno combattuto le mafie fino al sacrificio della vita, come il sindaco socialista di Corleone Bernardino Verri, ucciso nel 1914, il democristiano Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, ammazzato nel 1980, e Pio La Torre , autore della legge di esproprio dei beni ai mafiosi, ucciso nel 1982. Tolta questa esigua minoranza la questione dei rapporti tra mafia e politica è cosa che riguarda tutti i politici.
     In sintesi, il ceto politico italiano può essere diviso in tre categorie: la prima  una piccola schiera che ha combattuto apertamente le mafie, spesso pagando con la vita; all’opposto, la seconda categoria , numerosa ma non maggioritaria, che con le mafie ha trescato in tutti i modi possibili e immaginabili. Infine, la terza, la più numerosa, quella dei “FINTI TONTI”; politici convinti che il problema mafioso non li riguarda e che sia  una questione da gestire con la delega a polizia e magistratura, salvo poi fare quadrato contro i magistrati o chiunque altro provasse a proporre soluzioni atte a spezzare il legame mafie-politica.

Le prime norme

     Benché questo rapporto fosse noto sin dai primi anni del nuovo Stato unitario, grazie alle pubblicazioni di intellettuali come Marco Monnier (1863), Pasquale Villari (1875) e Leopoldo Franchetti (1877), bisognerà aspettare ben 128 anni dalla prima denuncia per avere la prima norma tesa a spezzare il legame, la legge n.221 del 1991 (scioglimento degli enti locali infiltrati). Seguirà il concorso esterno in associazione mafiosa e il 416ter del C.P., quest’ultimo punisce il voto di scambio, ma solo se c’è scambio di denaro, la qualcosa avviene di rado in quanto i clan più che ai soldi del politico sono interessati ai suoi “favori”.
     A distanza di un ventennio, questi tre strumenti si sono dimostrati del tutto inadeguati  a spezzare il legame mafie-politica e a impedire la penetrazione dei clan nello Stato.
     Benché la legge 221/91 sia stata drasticamente ridimensionata,  da un provvedimento del governo Berlusconi nell’agosto del 2009, si continua a sciogliere comuni a tutto spiano e non più solo al Sud, a dimostrazione dell’aggravarsi del problema delle infiltrazioni mafiose nello Stato.

     Che fare dunque?

     In quale modo può essere spezzato questo legame? che poi è l’anticamera di una generale penetrazione nell'economia e nella società Italia?
     Per capire quali strumenti approntare occorre riflettere sullo scambio che avviene nel concreto tra politico colluso e mafioso. Al primo  interessano i voti per essere eletto, al secondo interessano i “favori” del politico, ossia abusi d’ ufficio, turbativa d’asta, licenze illegittime, atti clientelari, ecc. …, in sintesi atti corruttivi. I magistrati Nino Di Matteo, Piergiorgio Morosini e Roberto Scarpinato confermano con le loro pubblicazioni che la corruzione è il terreno sul quale avviene l’incontro tra politici e mafiosi. E’ la chiave d’ingresso nello Stato, dice espressamente Di Matteo.
     Ne consegue che il terreno privilegiato di lotta alle mafie, per spezzare il legame con i politici, è quello della lotta alla corruzione.  Impedendo ai politici (e ai dipendenti pubblici) di commettere atti corruttivi si impedisce lo scambio con i mafiosi.
     Ma è qui che sorgono i problemi. Politici collusi e “finti tonti”, ovvero conniventi e conviventi fanno quadrato contro ogni ipotesi di reale lotta alla corruzione.
     
La normativa anticorruzione

     Sorvolando sull'inutile ddl-Severino, del tutto privo di ogni valenza concreta di lotta alla corruzione, soffermiamoci un attimo sulla proposta di legge di Marco Travaglio e del giornale Il Fatto Quotidiano, risalente a fine 2010. La proposta di Travaglio mira a recepire integralmente le indicazioni contenute nella Convenzione di Strasburgo e non solo un pezzettino, come nel caso del ddl-Severino. Inoltre, vuole modificare i tempi di prescrizione della ex-Cirielli e ripenalizzare il falso in bilancio.
     Una legge siffatta, se passasse in parlamento, non sarebbe ancora adatta a stroncare la corruzione, perché non prevede la costruzione di una rete di controlli preventivi e soprattutto non inciderebbe se non marginalmente sul flusso principale di corruzione che passa nelle oltre 15.000 Spa, Srl e partecipate promosse da comuni, province, regioni e ministeri, non soggette ai controlli della contabilità di Stato in quanto società di diritto privato.
     Purtuttavia la proposta Travaglio sarebbe un buon inizio, atta a farci recuperare qualche posto nella vergognosa posizione dell’Italia nella classifica di Trasparency International .
     Ma se guardate ai programmi e ai propositi dichiarati in merito vi accorgerete che né i vecchi partiti, né i nuovi movimenti politici (Fare Futuro, Fermare il declino, Movimento 5 stelle) sono interessati ad una lotta vera alla corruzione e si limitano alla delega nel contrasto alle mafie, eccetto il Movimento 5 stelle, che oltre a non avere alcuna indicazione anticorruzione nel programma nazionale sfugge anche alla questione mafiosa.
     Ecco quindi delineata la principale responsabilità del ceto politico italiano vecchio e nuovo (eccetto quei pochi coraggiosi) nel consentire alle mafie di entrare nello Stato, dilagare nell’economia e riprodursi continuamente superando ogni colpo che magistrati e forze dell’ordine gli assestano.

     Ahimé! Questo è quanto.                      




1 commento:

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