16 ott 2011

Il ruolo della corruzione nel fenomeno mafioso

Spezzare il rapporto mafie-politica è possibile agendo sul terreno della lotta alla corruzione.
di Ugo Di Girolamo

    La Corte dei Conti, nel febbraio 2010, ha valutato l’ammontare della corruzione, divenuta sistemica, in 50/60 miliardi di euro. Cifra sottratta alla collettività, ai servizi, alle opere pubbliche e agli investimenti.

La corruzione – dice Davigo – è un reato a vittima diffusa, nel senso che “… nessuno percepisce di essere danneggiato direttamente”, ma gli effetti sono devastanti e vanno ben al di la del danno diretto all’erario.
Essa distorce la redistribuzione del reddito operata dalle decisioni politiche di spesa pubblica, da investimenti e servizi verso la collettività la ricchezza è dirottata verso gruppi di delinquenti.
Vi è poi un effetto deprimente sull’apparato produttivo, sia perché altera la concorrenza tra le imprese, sia perché è connessa e sollecita un altro grave reato economico: il falso in bilancio, necessario per accantonare somme in nero da utilizzare come mazzette. Se al reato di corruzione ne aggiungiamo altri due connessi, il clientelismo e il voto di scambio, allora non solo l’articolo 97 della Costituzione – quello che sancisce l’obbligo per la pubblica amministrazione all’efficienza e all’imparzialità verso i cittadini – è vanificato, ma è l’intero impianto dello Stato di diritto ad avere scarso senso.

Ancor più gravi i riflessi sulla democrazia, in un sistema politico dove la corruzione è pratica quotidiana diffusa, il vincolo di fiducia che lega i cittadini alle istituzioni viene demolito; al suo posto subentrano antipolitica e estraneità allo Stato.

CORRUZIONE E CLAN

Ma vi è un altro aspetto dei riflessi della corruzione, che solitamente

sfugge o è marginalizzato dagli studiosi del fenomeno in questione, che riguarda le organizzazioni criminali di tipo mafioso.

Il magistrato Raffaele Cantone nel suo ultimo libro, I Gattopardi, afferma: “i clan si aspettano che il politico [colluso] garantisca assunzioni e appalti”, la coppia di assi su cui poggia il rapporto tra i padrini e i loro rappresentanti politici. Dall’altro versante, il politico avvezzo alle pratiche corruttive e clientelari, si aspetta i voti controllati dal clan per garantirsi la vittoria elettorale.

In altri termini, la corruzione e il clientelismo rappresentano il terreno di incontro tra mafie, politica e pubblica amministrazione;per i mafiosi la porta d’ingresso negli enti dello Stato.

Clientelismo, affarismo e corruttele varie rendono gli apparati territoriali e periferici dello Stato pronti ad essere infiltrati e piegati ai voleri dei clan.

Nel rapporto mafie – politica – pubblica amministrazione la corruzione, il clientelismo e il voto di scambio giocano, quindi, un ruolo centrale e determinante.

L’ANTICO RAPPORTO

Il rapporto mafia/politica, che costituisce l’essenza stessa del fenomeno mafioso, differenziandolo dalla generica criminalità organizzata, è stato colto immediatamente dagli studiosi all’indomani dell’unità d’Italia, unità che comportò l’affermazione del liberalismo e l’introduzione delle elezioni politiche e amministrative. Sia Marco Monnier, in “La camorra” (1863), che Leopoldo Franchetti nella sua indagine sulla mafia siciliana nel 1876, evidenziano il rapporto tra delinquenti e politici, nonché la penetrazione nelle istituzioni dello Stato.

Ma anche i liberali meridionali Pasquale Villari, Giustino Fortunato e Pasquale Turiello si accorgono del rapporto tra clan e politica. E’ Giustino Fortunato che conia le espressioni “bassa camorra”, operante nei quartieri tra la plebe, e “alta camorra” in azione nella pubblica amministrazione, nell’economia e nella stampa. Turiello esamina (1883) il ruolo del clientelismo e delle organizzazioni criminali nelle battaglie elettorali per comuni, province e parlamento nazionale.

Ventidue anni dopo Franchetti, Ermanno Sangiorgi, questore di Palermo, invia un rapporto al ministro degli interni nel quale afferma: “…sgraziatamente i caporioni della mafia stanno sotto la tutela di senatori, deputati e altri influenti personaggi che li proteggono e li difendono per essere poi, alla loro volta, da loro protetti e difesi”. Si potrebbe continuare con le conclusioni di Saredo (1901), di Mori (1915 e 1928/29), di Pafundi (1963), di Cattanei (1972), fino agli anni 90 e alla commissione parlamentare antimafia presieduta da Violante, ma per una economia di spazio ci fermiamo a Sangiorgi, ci sembra sufficientemente documentato l’antico e ininterrotto rapporto tra mafie e politica.

LE PRIME MISURE

Tuttavia, prima che il parlamento italiano adottasse dei provvedimenti specificamente volti a spezzare questo rapporto tra mafie e politica sono dovuti passare ben 128 anni dalla prima denuncia di Monnier: la legge n.221 del 1991, che prevede lo scioglimento degli enti locali infiltrati dai clan.

In poco meno di un ventennio di applicazione la legge 221 ha subito diverse modifiche e integrazioni, dando discreti frutti, dimostrandosi però incapace di risolvere il problema della penetrazione mafiosa negli enti locali, nonostante le 4 ASL e gli oltre 200 consigli comunali sciolti. Con il pacchetto sicurezza dell’estate del 2009 il governo ha apportato delle modifiche ulteriori alla legge, di fatto svuotandola. Oggi è possibile sciogliere un comune infiltrato solo se emergono elementi di collegamenti “concreti, univoci e rilevanti”, siano inoltre individuati gli amministratori o pubblici dipendenti responsabili dell’infiltrazione, nonché gli appalti o atti illeciti nei quali si è concretizzata l’infiltrazione. In altri termini, solo in presenza di una inchiesta della magistratura è ipotizzabile lo scioglimento di un ente locale. Il vecchio strumento che consentiva di intervenire senza il pronunciamento di un magistrato – anzi prevenendolo – non esiste più dopo le modifiche dell’estate 2009.

L’altro strumento specifico volto a spezzare il legame dei mafiosi con i politici, gli amministratori pubblici, ma anche con figure professionali e del mondo economico è il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Purtroppo anche questo strumento, messo su dalla prassi giurisprudenziale, si è rivelato incapace di conseguire il risultato di spezzare il legame mafie – politica. Lo rilevano espressamente Salvatore Lupo nella sua analisi della vicenda Andreotti (2007) e Raffaele Cantone ne “ I Gattopardi “(2010).

UNA POSSIBILE ALTERNATIVA

Ma se è vero ciò che abbiamo precedentemente affermato che nel rapporto mafie – politica – pubblica amministrazione la corruzione e il clientelismo giocano un ruolo centrale, essenziale al mantenimento del rapporto stesso , allora – in presenza di una insufficienza dei due strumenti sinora utilizzati (la 221/91 e il concorso esterno ) - la lotta alla corruzione può assumere un valore strategico. I limiti sin qui riscontrati possono e devono essere aggirati rilanciando l’iniziativa dell’antimafia sul terreno della lotta alla corruzione.

Impedire al politico e al funzionario pubblico, attraverso una legislazione stringente e una rete di controlli, di fornire ai clan assunzioni, appalti e altri vantaggi loro procurati mediante atti di corruzione equivale a far saltare il rapporto di affari tra mafie e politica.

Da tempo è convinzione diffusa che il solo contrasto dei clan sul piano “militare” non porterà alla sconfitta definitiva del fenomeno mafioso, 150 anni di storia unitaria sono stati attraversati da ripetute ondate repressive, nessuna delle quali – per quanto dura – è riuscita a venire a capo del problema . A partire dagli anni 90 è maturata la convinzione della necessità di intervenire anche sull’altro anello della catena mafie – politica.

LA NECESSITA’ DI UNA SVOLTA

Oggi a fronte di una conclamata insufficienza degli strumenti di lotta sin qui usati occorre prendere atto della necessità di una svolta nella lotta alle mafie. Spezzare il legame mafie- politica è possibile a condizione che il movimento antimafia nel suo insieme, di destra e di sinistra, assuma come asse strategico della sua iniziativa la lotta alla corruzione.

Certo, al momento, lo stato della legislazione anticorruzione è assolutamente deprimente. A vedere le statistiche giudiziarie si direbbe che il fenomeno corruttivo sia in forte calo. In realtà il drastico calo delle condanne per corruzione, concussione e abuso d’ufficio, è il risultato di un processo mediante il quale il ceto politico italiano ha reagito a Tangentopoli. Non potendo rimettere la magistratura sotto il controllo politico, così come era avvenuto per oltre un secolo a partire dall’unità, il ceto politico italiano (in particolare quello di destra e nell’ultimo decennio) ha operato in tre direzioni per impedire o ridurre drasticamente i controlli di legalità sulla pubblica amministrazione (Bruno Tinti, La questione immorale, 2009):

A – indebolimento delle norme di controllo;

B – depotenziamento della funzionalità dell’apparato giudiziario;

C – passaggio di funzioni pubbliche a società di diritto privato promosse da enti locali (ne esistono oltre 14.000) o dai ministeri (altre 1.500), svincolate, quindi, dalle regole della contabilità di Stato. (Vedasi in proposito Ivan Cicconi, “Corruzione radiografia di un sistema”, Narcomafie n.12 /2009). In Campania l’esperienza dei consorzi intercomunali obbligatori e delle società da essi generate per la gestione dei rifiuti urbani si è dimostrata disastrosa ed esemplificativa in proposito, la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti ebbe a definirli “… luoghi di incontro tra malavita camorristica e mala amministrazione”.

In queste condizioni, quindi, la lotta alla corruzione assume un duplice significato: rigenerare il ceto politico e nel contempo spezzare i suoi legami con le organizzazioni criminali di tipo mafioso. La rottura di questo legame è l’unica via per sconfiggere definitivamente la criminalità mafiosa, liberando le potenzialità di sviluppo del Mezzogiorno d’Italia.

Ma il movimento antimafia italiano nel suo insieme stenta incredibilmente a prendere atto di questa potenziale strategia politica e nel contempo tollera con il suo silenzio che tutti i partiti politici si presentino agli elettori o privi di qualsiasi proposta volta a sradicare il fenomeno mafioso o con proposte ridicolmente insufficienti allo scopo.

Comincio a credere che l’affermazione di don Luigi Ciotti (da me ascoltata in occasione della celebrazione dell’inizio attività della cooperativa “Le terre di don Peppe Diana” il primo ottobre a Cancello Arnone, circa i nemici della lotta alle mafie ) sia vera, vale a dire – cito a memoria – i peggiori nemici del movimento antimafia sono gli operatori (civili) dell’antimafia.

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