17 giu 2018

A proposito di "Sapiens. Da animali a Dei"


di Ugo Di Girolamo
PREMESSA
     Avevo appena finito di leggere uno strano libro di storia umana, nel quale si fa una puntigliosa propaganda alla meditazione vipassana buddhista, quando una persona a me cara mi disse che aveva intenzione di seguire un corso di meditazione vipassana. Nel tentativo di dissuaderla ho messo giù degli appunti che alla fine rappresentano una critica netta non solo alle pratiche meditative propagandate dall’autore, ma anche alla visione “filosofica naturalistica” della storia umana sottesa nel saggio.
     Il libro in questione, titolato “Sapiens. Da animali a Dèi. Breve storia dell’umanità”, che ha avuto un grande successo internazionale tanto da essere tradotto in 30 lingue, è di Yuval Noah Harari, uno storico israeliano che pratica la meditazione vipassana.
          Benché non condivisibile per alcune sue finalità (la meditazione vipassana), il testo non è per nulla banale e offre  spunti di riflessione sulla storia umana di grande interesse. Di particolare valore è l’approccio unitario alla storia umana, considerata in tutte le sue componenti temporali e spaziali, e l’interdisciplinarità metodologica, con ampio uso di antropologia, archeologia, etologia dei primati ed altro.

UNA PERIODIZZAZIONE DELLA STORIA UMANA NON CONVINCENTE

Si possono fare tantissime obiezioni alle cose che scrive l’autore, ma qui ci limiteremo solo ad alcune tra le più rilevanti. Harari presenta una periodizzazione dell’intera storia umana , a partire da 2 milioni e mezzo di anni fa, sostanzialmente raggruppabile in quattro periodi. Il primo dall’origine del genere homo a 70.000 anni fa, nel quale le varie specie umane altro non sono che animali di nessuna importanza, con un cervello un po’ più sviluppato. La seconda  fase va dalla “rivoluzione cognitiva”, avvenuta tra i 70 mila e i 30 mila anni fa fino alla rivoluzione agricola (12.000 anni fa). La terza da quest’ultima al XVII secolo quando parte la rivoluzione scientifica; la quarta da questa fino alla fine consapevole del sapiens moderno, che evolverà in una nuova specie, entro al massimo una decina di secoli (pag.15).
     Personalmente ho sempre preferito una periodizzazione della storia basata sulle 4 rivoluzioni che hanno cambiato il rapporto degli umani con la natura, nella loro lotta incessante per procurarsi i beni per la propria esistenza: rivoluzione del fuoco, rivoluzione agricola, rivoluzione industriale e quella dell’intelligenza artificiale e biotecnologie, quest’ultima appena avviata.
     Harari è consapevole dell’importanza dell’uso del fuoco che: “…marcò il primo grande distacco tra l’uomo e gli altri animali”(pag.23), ma non ne trae la conseguenza  fondamentale. Tracce archeologiche dell’uso del fuoco risalgono almeno a 800 mila anni fa, ma è sicuramente da 300/400 mila anni fa che l’uso diviene sistematico , generalizzato alle varie specie umani. Per Harari “fino a tempi molto recenti la posizione del genere homo nella catena alimentare è rimasta stabilmente su un punto mediano … gli umani hanno cacciato piccole creature e raccolto quanto potevano, essendo intanto oggetto dell’attenzione dei predatori più grandi” (pag. 21).
     In realtà questa posizione mediana viene abbandonata molto prima di quanto immagina Harari (intorno ai 70.000 anni fa) ed è proprio grazie all’uso del fuoco. Gli umani sloggiano dalle caverne grandi predatori (orsi, leoni delle caverne) e vi si insediano potendo qui  trascorrervi la notte, con il fuoco all’entrata, in tutta sicurezza dai grandi predatori; senza contare la possibilità di appiccare incendi nelle savane per allontanare branchi di predatori. Ed è proprio in questa fase – 400 mila anni fa – che l’archeologia dimostra che gli umani cominciarono a cacciare prede di grandi dimensioni.
     Uccidere un mastodonte senza avere la possibilità di scacciare i grandi predatori, non avrebbe avuto alcun senso. Macellare e trasportare la carne di un animale di grandi dimensioni era possibile solo a patto di poter tenere lontani leoni, iene, orsi, lupi, ecc…Pertanto la “posizione mediana” è stata abbandonata 400.000 anni fa.
     In sintesi, con il fuoco gli umani regolano il rapporto con i grandi predatori e si instaurano anche loro al vertice della catena alimentare, ecco perché va considerata la prima grande rivoluzione umana.
     Per quanto riguarda la rivoluzione cognitiva , che altro non sarebbe che “la comparsa di nuovi modi di pensare e di comunicare , nel periodo che va da 70 mila a 30 mila anni fa” (pag. 33), non v’è accordo nel mondo scientifico,  per molti studiosi  queste novità comunicative e nei modi di pensare più che la conseguenza di una improvvisa e casuale mutazione altro non sarebbe che il frutto di un lento accumulo culturale, a partire dalla nascita della nostra specie. In fondo il cervello del sapiens moderno di 200.000 anni fa è perfettamente uguale, in peso volume e struttura, al nostro di oggi.
     E’ davvero singolare poi che Harari, parlando della sua seconda rivoluzione, quella scientifica avviata nel XVII secolo, ignori in maniera plateale la prima rivoluzione scientifica, quella avvenuta nella Grecia ellenistica a partire da IV secolo  a.C.  in poi. Che fu vera scienza e non solo mero accumulo di conoscenze pratiche basta a dimostrarlo - a parte i lavori di Euclide, Pitagora e Archimede – un solo esempio: partendo dall’elaborazione di enti teorici astratti gli scienziati  ellenisti erano in grado di misurare (con molta approssimazione dati gli strumenti di misurazione dell’epoca) la lunghezza del meridiano terrestre e la distanza del sole dalla terra.  Prima rivoluzione scientifica che simbolicamente può considerarsi conclusa con la morte di Ipazia nel 415 d.C., ultima scienziata ellenista linciata da monaci fanatici cristiani.
     Al di là di queste osservazioni, resta valido il tentativo di Harari di utilizzare una periodizzazione della storia che abbia senso per tutti gli umani e non solo per gli europei.
     Un’altra notazione negativa è l’insistente e strisciante nostalgia per l’età dei cacciatori – raccoglitori che attraversa tutto il libro. Una sorta di Eden perduto, ma senza mai affermarlo apertamente.
     Ma è nel capitolo sulla rivoluzione agricola, definita  “ la più grande impostura della storia” e “la trappola del lusso”, che Harari esprime più apertamente la sua preferenza per il modo di vita dei cacciatori – raccoglitori, che a suo dire …“passavano il loro tempo in modi più stimolanti e variati, e correvano meno rischi di patire la fame …” (pag.108). Insomma, se non siamo al mito dell’Eden perduto poco ci manca.
     Altrettanto strano è il fatto che la nascita delle classi sociali, conseguenza dell’agricoltura, venga ridotta a fenomeno marginale indicato come  “…creazione di élite viziate”  (pag.108) senza alcuna considerazione del peso e del ruolo da esse svolte nei successi 10.000 anni.

STORIA DELLA FELICITA’ O PROPAGANDA PER LA MEDITAZIONE VIPASSANA?

     Infine, Harari inserisce un capitolo sulla felicità. Si badi, non sul benessere, ovvero della quantità e qualità dei beni per l’esistenza dei quali gli umani hanno potuto mediamente disporre nelle varie epoche storiche, ma di un sentimento soggettivo e aleatorio qual è la felicità, difficile persino da definire. L’autore non è in grado di stabilire se sia stato più felice l’uomo del basso o alto medioevo, l’uomo moderno o contemporaneo o quello del mondo antico, anche se le sue simpatie vanno ai cacciatori – raccoglitori. E conclude il capitolo dicendo che questa [l’assenza di una storia della felicità] è la più grossa lacuna nella nostra comprensione della storia. Faremmo bene a cominciare a riempirla” (pag. 492).
     In realtà il capitolo, privo di alcuna conclusione, serve ad Harari per propugnare la sua via alla felicità: la meditazione vipassana buddhista. Secondo il buddhismo la radice della sofferenza non è né il dolore né la tristezza, e neanche la mancanza di senso. Piuttosto, la vera radice della sofferenza è la ricerca incessante e inutile di sensazioni effimere, che ci gettano in uno stato costante di tensione, inquietudine e insoddisfazione. A causa di questa ricerca, la mente non è mai soddisfatta” … “Ci si libera dalla sofferenza non quando si prova questa o quella sensazione passeggera, ma quando si comprende la natura effimera di tutte le sensazioni e si smette di ricercarle. Questo è il fine delle pratiche di meditazione.” … “Quando la ricerca si ferma, la mente diventa rilassata, chiara e appagata” (pag. 490).

 ALLA RADICE DEL PROBLEMA

    E’ chiaro ad Harari che “Da un punto di vista puramente scientifico, la vita umana è assolutamente senza senso. Gli umani sono il risultato di processi evoluzionistici che agiscono senza un obiettivo o uno scopo”(pag. 486). Ma poi si dimentica di trarre tutte le conseguenze da questa affermazione, per fuggire in una visione filosofica naturalistica che possa dargli l’agognata pace e appagamento.
     Per ogni specie l’evoluzione ha determinato delle caratteristiche adattative tipiche delle stesse, che rappresentano il suo etogramma. Quello umano può essere così sintetizzato:
1 – specie sociale a gruppo chiuso, determinato dalle esigenze collaborative dei componenti il gruppo, con rapporto esclusivo con il proprio territorio e conseguentemente di ostilità verso gli altri gruppi, con scambio – consensuale o violento – di donne da un gruppo all’altro.
2 – tendenziale coppia fissa, dato l’elevato impegno energetico per crescere i figli e portarli all’autosufficienza.
3 – formazione all’interno del gruppo di gerarchie per regolare i rapporti collaborativi, l’accesso ai beni e alle attività riproduttive.
4 – cervello sviluppato, che consente un ampio uso di strumenti, una elevata capacità di comunicazione, la nascita del linguaggio simbolico e l’elaborazione di raffinate culture trasmissibili alle generazioni successive.
     Questo complesso etogramma, che è alla base delle svariate forme di società elaborate dai diversi gruppi umani, si è formato sotto la spinta della selezione naturale, che ha agito con un meccanismo di punizioni (dolore) o ricompense (gioia, felicità) volte a favorire un vantaggio riproduttivo per il singolo.
     Nel corso della storia umana, quando l’elaborazione di avanzate culture ha posto gli umani di fronte alla cruda realtà dell’infernale meccanismo “punizione / ricompensa”  “dolore / gioia” in molti hanno cercato una via di fuga. In fondo, la ricerca della felicità nell’oltretomba, per le religioni monoteiste o qui in terra per quelle naturaliste (buddhismo, confucianesimo) è una componente fondamentale dei racconti religiosi.
     Ma la ricerca di una via di fuga dalla realtà della selezione naturale può avvenire in forme varie e sul piano individuale, eremiti e monaci in ultima analisi non fanno che questo. Rinunciano alla vita di coppia, evitandosi conflittualità e affanni del rapporto con l’altro sesso e gli oneri della crescita dei figli, ma rinunciando a tutte le gioie e alla solidarietà che una famiglia può dare. Rinunciano alla competizione gerarchica, una delle principali fonti di conflitti e stress per gli umani, salvo poi riprodurla in piccolo nelle loro microcomunità (nel caso del monachesimo). Optano per una “cultura stabile” ostile alle innovazioni, che rappresentano turbative a un mondo immobile, senz’altro più tranquillizzante. Tutto ciò che occorreva sapere del mondo lo si sapeva già, era scritto nei libri della rivelazione divina (per le religioni monoteiste) o nella filosofia di vita di quelle naturalistiche.
     Per il buddhismo – come dicevamo – ci si libera dalla sofferenza non quando si prova questa o quella sensazione [piacevole] passeggera, ma quando si comprende la natura effimera di tutte le sensazionie si smette di ricercarle.
     Insomma, un individuo apatico, indifferente, è quello più soddisfatto e appagato che non soffre più.
     Va da se che l’insieme di queste posizioni di fuga dalla realtà se fossero state adottate dalla grande maggioranza degli umani avrebbero portato o potrebbero portare alla estinzione dei sapiens moderni.

VERSO LA FINE DEL SAPIENS MODERNO

     Un destino quindi ineluttabile quello di dover soggiacere all’infernale meccanismo della selezione naturale ? ! ? !
     Non è detto!
     In una cosa mi trovo pienamente d’accordo con Harari, il sapiens moderno è al capolinea. Dopo 200 / 250 mila anni dalla sua nascita sta acquisendo capacità di manipolazioni genetiche tali da poter determinare le caratteristiche genetiche dei nuovi nascituri, quindi di una nuova specie. Allungando indefinitamente la vita e potenziando, a scapito di altre, un insieme di caratteristiche, qualità e capacità degli attuali umani, si finirà per determinare individui – oltre che geneticamente diversi – dai modi di vivere e soprattutto di pensare così differenti da noi oggi tanto quanto a noi appaiono profondamente diversi gli umani Neandertaliani.
     Il processo è appena agli inizi e offre talmente tanti vantaggi – a cominciare da un indefinito allungamento della vita fino alla padronanza del proprio destino – che non sarà fermato. Ma non è scontato che l’esito di questo processo sia la nascita di una nuova specie di individui a-mortali e dalle capacità eccezionali, come sembra far intravedere l’autore. Può accadere che nascano più specie che, occupando la stessa nicchia ecologica, finirebbero in conflitti interspecifici irriducibili o forse peggio in una società castale.
     In ogni caso concordo con Harari quando dice che di queste cose bisognerebbe cominciare a discutere apertamente nel mondo scientifico, lasciandosi alle spalle – aggiungo – il terribile trauma dell’eugenetica nazista, perché non si tratta più di selezionare “una razza” dominante sulle altre considerate sottospecie, ma di un problema diverso, si tratta di capire in quale specie vogliamo evolvere.


1 commento:

  1. a parte il fatto che non conosco approfonditamente la meditazione vipassana, questo commento mi ha spinto alla lettura del libro di harari: ci sentiamo in seguito per i commenti!! un saluto affettuoso e grazie come sempre per
    questi spunti (per me preziosissimi) che spaziano dall'antropologia, all'economia, alla storia e a tanto altro!

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