25 feb 2012

Nuovi orientamenti nella lotta alle mafie

Da Palermo due contributi rilevanti che pongono con chiarezza l'obiettivo della sconfitta definitiva delle mafie

di Ugo Di Girolamo
Sul finire del 2011 sono stati pubblicati due saggi sulla mafia il cui contenuto è destinato a condizionare modalità e finalità del movimento antimafia.
    Il decennio precedente era stato caratterizzato da una letteratura sull’argomento, prodotta da analisti e operatori dell’antimafia, venata da profondo pessimismo circa le possibilità di venire a capo in maniera definitiva della questione mafiosa.
    Il sommarsi di una forte espansione delle mafie al nord e nell’economia legale, da una parte, e un’azione di contrasto dei governi concepita come mero problema di ordine pubblico (il “modello Caserta”) dall’altra, inducevano al più cupo pessimismo, nonostante alcuni successi sul piano “militare”.
    I saggi di Nino Di Matteo, Loris Mazzetti, “Assedio alla toga” e di Piergiorgio Morosini “Attentato alla giustizia” (preceduti da un lavoro del sottoscritto del 2009), rappresentano una vera e propria svolta rispetto al decennio precedente, soprattutto in relazione alla strategia di lotta contro le mafie.
    Il rapporto mafie-politica è noto sin dalle origini del fenomeno mafioso, ma l’azione di contrasto si è sempre esclusivamente indirizzata verso l’ala “militare”: i clan mafiosi. Nell’ipotesi dei suddetti autori l’azione antimafia va prioritariamente indirizzata a spezzare la relazione tra politici e mafiosi privilegiando la lotta sul terreno della corruzione.
    Per Di Matteo il cuore del problema è il rapporto mafia-politica. “Ci si deve rendere conto – dice il magistrato della DDA di Palermo – che per sconfiggere definitivamente la mafia è assolutamente necessario recidere i suoi rapporti con la politica . “Fino a quando lo Stato non avrà acquisito quella consapevolezza e agito di conseguenza, continueremo a fare qualche passo avanti soltanto in una direzione: quella del contrasto all’ala militare, lasciando colpevolmente crescere le attività più pericolose di Cosa nostra, come la sua capacità di infiltrazione nell’economia e nella politica”.
    Per recidere i rapporti tra mafia e politica occorre colpire sul terreno della corruzione: “Questi reati costituiscono oggi le chiavi di accesso, il grimaldello attraverso cui Cosa nostra, e le mafie in generale, si infiltrano nella politica, nella pubblica amministrazione, nelle istituzioni”.
    E’ sul terreno della corruzione che si realizza il rapporto tra politici e mafiosi: voti contro appalti, assunzioni clientelari e atti amministrativi per agevolare la penetrazione mafiosa nell’economia legale. Impedire, quindi, al politico quegli atti corruttivi essenziali all’attività mafiosa equivale a far saltare il loro rapporto d’affari.
    Se Cosa nostra – afferma il ‘pentito’ Salvatore Cancemi non avesse avuto da sempre gli agganci con lo Stato, se non avesse intrattenuto e mantenuto rapporti con la politica e con le istituzioni, sarebbe stata soltanto una banda di sciacalli. Sarebbe stata debellata in pochissimo tempo come qualsiasi altra banda criminale”.
    Pierluigi Morosini, gip a Palermo, analizza tutte le “Trattative” che ci sono state in 150 anni di unità nazionale: “Nei momenti di forte stabilità istituzionale, i clan cercano di concludere patti segreti con i politici. Barattano il sostegno elettorale con favori di natura economico-finanziaria (appalti, concessioni) e con l’aiuto a sottrarsi alla giustizia o a godere di trattamenti di favore a livello carcerario” [...] “Nei momenti di crisi o di fibrillazione delle istituzioni, per i motivi più vari, Cosa nostra ha la vocazione a inserirsi in quelle dinamiche con il principale obiettivo dell’impunità”.
    "La corruzione – dice Morosini – è diventata il principale terreno di penetrazione delle mafie nelle istituzioni e nell’economia, oltre che il principale luogo nel quale si costruiscono le alleanze con politici, amministratori, imprenditori”.
    Sia per Di Matteo che per Morosini la lotta alla corruzione diventa l’elemento centrale della battaglia antimafia. Morosini si spinge fino al punto di indicare le principali misure da introdurre nella legislazione italiana, atte a contrastare la grande corruzione:

1 – introduzione del reato di traffico di influenze;
2 – modifica del reato di falso in bilancio e dei reati fiscali;
3 – introduzione del reato di autoriciclaggio;
4 – introduzione del reato di corruzione tra privati;
5 – introduzione del test di integrità (ovvero della possibilità per poliziotti finti corruttori di verificare l’integrità di un politico o di un amministratore);
6 – istituzione di “premi” per “pentiti” di atti corruttivi.

    Si tratta di misure previste dalla convenzione di Strasburgo del 1999 per la lotta alla corruzione. Misure che ampliano la sfera dei comportamenti perseguibili e che si aggiungono al vecchio apparato normativo già dimostratosi largamente insufficiente. Le uniche misure che migliorerebbero l’efficacia dell’azione anticorruzione resterebbero i test d’integrità e i premi per i “pentiti”. Troppo poco per distruggere o ridimensionare drasticamente un cancro delle dimensioni delle corruzione italiana.
    Non è pensabile che la lotta contro la corruzione possa essere vinta senza introdurre procedure, accorgimenti e enti che agiscano nella fase preventiva, di controllo volto a impedire che gli atti corruttivi si realizzino e che possano potenziare le capacità di scovarli quando si concretizzano. Forse è opportuna anche una specifica magistratura allo scopo, sul modello delle direzioni distrettuali antimafia.
    Inoltre, non è ammissibile che il 416 Ter del c.p. rimanga inalterato. Non è concepibile che sia punito solo lo scambio di voti contro denaro e non anche voti contro influenza su appalti, concessioni, assunzioni clientelari e quant’altro occorre ai mafiosi. Come pure non si può tollerare oltre la depenalizzazione di fatto del falso in bilancio e lo spropositato accorciamento dei tempi di prescrizione che tra l’altro rendono impunibili reati quali l’abuso d’ufficio o la turbativa d’asta.
    La Convenzione di Strasburgo è stata approvata a livello europeo nel 1999, da allora, in tredici anni, abbiamo avuto per tre anni governi di centrosinistra ( D’Alema, Amato, 2° governo Prodi) e per altri dieci anni governi di Berlusconi, senza che la stessa fosse recepita nella nostra legislazione. La conclusione non può che essere una: il ceto politico italiano tende a sottrarsi ai controlli di legalità . Tendenza non nuova, ma permanente nella storia politica dell’Italia unità.
    Con la crisi i politici hanno parzialmente ceduto il campo ai tecnici e il governo Monti sembra orientato a colmare questo grave ritardo nel recepire le norme della Convenzione di Strasburgo. Ma “convincere” il ceto politico ad accettare seri controlli di legalità sul proprio operato è tutt’altra cosa.
    Da qui la necessità di una svolta per il movimento antimafia, vanno ridefinite le modalità e gli obiettivi della sua azione.

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