21 ott 2011

Evoluzione Del Fenomeno Mafioso nell’Italia Pre E Post Unitaria

Dai Borboni ai Savoia il rapporto mafie-politica si modifica ampliando le potenzialità operative dei clan.

Intervento tenuto al convegno di studi promosso da Università di Cassino, Comune di Sessa Aurunca e dalla rivista Civiltà Aurunca,sul tema “Unità d’Italia. Regno delle Due Sicilie – Regno d’Italia a confronto”.
di Ugo Di Girolamo

    Prima di entrare nel merito dell’argomento ritengo sia opportuna una premessa che definisca cosa sia il fenomeno mafioso.
Solitamente si usa in modo indifferenziato l’espressione “criminalità organizzata” per riferirsi alle mafie, la qualcosa non è del tutto corretta, qualsiasi gruppo di uomini si associa per commettere con continuità reati può intendersi come “criminalità organizzata”.
La pirateria, il brigantaggio, i rapimenti di persone a scopo estorsivo, il traffico di esseri umani, il gangsterismo urbano e quant’altri reati, realizzati in maniera continuata, da associati allo scopo, rientrano tutti nella categoria della “criminalità organizzata” ma non in quella di tipo mafioso.
L’art. 416 del c.p. ci dice che si ha associazione a delinquere quando tre o più persone si uniscono per commettere con continuità più delitti. Per il solo fatto di farne parte vi è una pena autonoma che va ad aggiungersi a quella per gli specifici reati commessi.
Diversamente si ha l’associazione di tipo mafioso, (art. 416 bis) “quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza dell’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé e per altri.”
Pertanto il codice penale, nel distinguere tra generica criminalità organizzata e criminalità di tipo mafioso, fa riferimento a due elementi: il metodo e le finalità. Il metodo mafioso consiste nella capacità dell’organizzazione di incutere timore, di intimidire, senza l’uso specifico di atti di violenza. Le finalità, vale a dire il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti o servizi pubblici, delineano il carattere “politico” dell’organizzazione criminale di tipo mafioso, vale a dire la tendenza di queste a penetrare negli apparati dello Stato per piegarli ai propri voleri ed interessi.
La mafia, quindi, non si pone in antitesi con lo Stato, non è un antistato, non lotta contro di esso per sostituirvisi, ma si infiltra nelle istituzioni per piegarle ai propri scopi.
Il codice penale italiano introdusse la distinzione tra generica criminalità organizzata e criminalità di tipo mafioso solo nel 1982. Tuttavia, la “politicità” di questo specifico fenomeno criminale era nota sin dai primi anni dopo l’unità nazionale.
Le prime notizie ufficiali su mafia e camorra le ritroviamo nella documentazione della neonata amministrazione unitaria italiana. Le prime indagini sono di Marco Monnier sulla camorra nel 1863, Francesco Mastriani con “I vermi” del 1863, seguono Pasquale Villari su mafia e camorra, con le sue Lettere Meridionali pubblicate nel 1875, la Commissione Bonfandini nello stesso anno ed infine Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino ed Enea Cavalieri sulla Sicilia, nel 1876.
Il fenomeno, quindi, preesisteva allo Stato Unitario.
Oggi noi distinguiamo agevolmente tra le tre organizzazioni mafiose storiche ma all’epoca la cosa non era scontata.
Solo gli studi successivi hanno consentito di delinearne le principali caratteristiche distinguendo tra camorra, ’ndragheta e mafia siciliana.
In seguito gli studiosi hanno trattato queste tre organizzazioni criminali in modo separato e solo alla fine del ‘900 si è posto il problema della unitarietà del fenomeno mafioso. Nel 1982 veniva introdotto il 416 bis nel codice penale che sanzionava tutte le organizzazioni criminali di tipo mafioso.
Nel 1991 N. Tranfaglia poneva la questione del se avesse senso continuare a parlare delle organizzazioni mafiose “… come fossero realtà diverse tra loro” o se invece fosse “… necessario , e utile anche dal punto di vista della conoscenza storica, parlare per tutte di mafia o di mafie usando una sola categoria interpretativa”.
Nel 2008 E. Ciconte pubblicava una storia della criminalità nella quale tendenzialmente trattava le tre organizzazioni come fenomeno unico.
Nel 2009, il sottoscritto ha pubblicato un saggio nel quale le diverse organizzazioni criminali di tipo mafioso venivano espressamente considerate un fenomeno unico, con la sola eccezione della camorra della città di Napoli.
In entrambi i lavori sono state esaminate le principali differenze tra mafia, camorra ‘ndrangheta e sacra corona unita, nonché le più rilevanti caratteristiche comuni, tra queste ultime il fondamentale comune denominatore è dato dallo stabile rapporto privilegiato che queste organizzazioni tendono ad avere con il ceto politico e la pubblica amministrazione.
È questo, in ultima istanza, il tratto che unisce le tre organizzazioni storiche più le altre nate nella seconda metà del novecento e che distingue la criminalità di tipo mafioso dalle altre forme di criminalità organizzata.
In tempi recenti la camorra della città di Napoli ha assunto caratteristiche di gangsterismo urbano, diversamente quella del resto della regione si connota da sempre come vero e proprio fenomeno mafioso, proprio per un suo più stabile rapporto con il potere politico.
Tuttavia, la camorra napoletana - per Isaia Sales - si differenzia anche dal gangsterismo urbano. Quest’ultimo influenza con i propri comportamenti solo quelle frange sociali minoritarie dedite al crimine, mentre “la camorra esercita …. la propria egemonia su un ampio strato sociale che non coincide del tutto con quello delinquenziale”.
Una delle espressioni più significative di questa capacità è data dalla canzone neomelodica, un prodotto artistico che inneggia alla illegalità e che si rivolge – con successo – al vasto pubblico dei quartieri e delle periferie veicolando valori e modelli comportamentali del crimine organizzato napoletano.
Anche la camorra ottocentesca di Napoli, pur essendo molto diversa da quella di fine novecento, si differenzia in una certa misura dalle altre mafie per le modalità della sua nascita.
Il fenomeno mafioso ha origine in tre città portuali e nei rispettivi retroterra, Palermo con la Conca d’oro, la Sicilia occidentale e l’area dello zolfo, Reggio Calabria con la Calabria meridionale, Napoli con il piano campano. A lungo il fenomeno rimarrà quasi esclusivamente confinato a queste tre aree, bisognerà aspettare la seconda metà del novecento prima che esso travalichi i confini storici infettando l’intera Italia.
Le cause e le modalità di affermazione di mafia siciliana, ‘ndrangheta calabrese e camorra campana, pur con alcune diversità, sono riconducibili al processo di eversione della feudalità, una certa differenza caratterizza, invece, l’origine della camorra napoletana.
Per Barbagallo “appare poco fondata, sul piano storiografico, il tentativo di cercare nei secoli precedenti [500,600,700] connessioni tra la plebe napoletana e varie forme di associazione delinquenziale, avendo a disposizione soltanto qualche racconto e molte leggende".
E tuttavia è tra la plebe napoletana che, tra gli anni ’20 e ’30 dell’ottocento, nasce la camorra cittadina. La massa sterminata di poveri addensatasi nella città tra il ‘600 e il primo ‘800 per vivere di elargizioni sovrane e aristocratiche, produce una nuova forma di criminalità dalle caratteristiche inedite.
Il più straordinario documento che abbiamo sulla camorra napoletana è l’indagine di Marco Monnier, La Camorra, 1863.
Lo scrittore nato a Firenze, figlio di un albergatore svizzero insediatosi a Napoli, consulta i documenti di polizia, analizza carte, verifica notizie, indaga e riscontra, alla fine produce un saggio che per il suo rigore può essere considerato uno straordinario documento storico, una vera e propria fonte primaria per la storiografia.
“Intorno alle origine – dice Monnier - di una setta che porta questo nome, nulla dice la storia, e la tradizione non risale oltre il 1820”.
Nel 1842 il “contarulo” o “contaiuolo”, ovverosia il contabile di una delle dodici paranze, Francesco Scorticelli – che a differenza degli altri camorristi sapeva scrivere – raccolse le regole della “Società dell’Umiltà o Bella Società Riformata” in un testo composto da ventisei articoli, chiamato “frieno”.
Monnier ci descrive la camorra in tutti i suoi aspetti, dalla struttura interna fortemente gerarchizzata, che va dal “garzone di malavita”, il primo grado di iniziazione, fino al “capointesta”, passando per le dodici paranze insediate nei dodici quartieri di Napoli rette da “capisocietà”, alle attività estorsive, al controllo del gioco di azzardo e altro, fino ad una vera e propria funzione giurisdizionale per dirimere controversie in seno alla plebe.
L’autore non si limita a descrivere doviziosamente tutte le attività criminali della camorra e i campi nei quali operava (carceri, esercito, mercati, ecc.), ma ci parla anche dei rapporti con la polizia e con il potere politico. Tra polizia e camorra vi era una sorta di cogestione dell’ordine pubblico e la monarchia tollerava questo stato di fatto, in quanto a lei utile, almeno fino al 1848.
“La molteplicità e la frequenza dei rapporti [tra polizia borbonica e camorra] segnalano l’esistenza di una caratteristica di fondo che permea le strutture mafiose costituendo un modo di essere delle stesse e non una patologia … un dato strutturale e non una deviazione di qualche funzionario più spregiudicato di altri”.
“Quando – racconta Monnier – un furto importante avveniva in un quartiere il commissario chiamava a sé il capo dei camorristi e lo incaricava di trovare il ladro. Il ladro era sempre trovato, salvo il caso che fosse il capo dei camorristi o il commissario”. Non solo i camorristi imponevano tangenti ma anche la polizia borbonica metteva a taglia le attività economiche nei quartieri.
“Esistono … documenti e rapporti dei ministri borbonici che attestano la profonda corruzione degli organi di polizia ai diversi livelli. Si pagavano stabilmente cospicue tangenti ai commissari di molti quartieri per l’esercizio di ogni attività commerciale”.
Una delle caratteristiche del camorrista napoletano, come ce la raccontano sia Monnier che Mastriani, è la sua grande visibilità, ben vestito, inanellato e con catene d’oro al collo, gira nel suo quartiere visibile a tutti e quindi anche alla polizia che però non lo disturba. Se così non fosse, sarebbe costretto a nascondersi o a mimetizzarsi.
Monnier parla anche di un camorrista “pentito” il quale sosteneva che “quando si divideva il carosello un terzo dei benefici era religiosamente portato al Commissario che a sua volta lo divideva con l’ispettore di servizio e con il caposquadra”. E aggiunge che, pur avendo trovato alcuni riscontri al racconto, non aveva però trovato una prova inconfutabile della veridicità della cosa.
La camorra costituiva una specie di potere parallelo rispetto ad una debole struttura statuale incapace di tenere l’ordine tra la plebe napoletana.
“L’apogeo dei rapporti tra potere politico e criminalità si raggiunse dopo il 1848 quando rivestì la carica di ministro della polizia borbonica Salvatore Maniscalco … [che ] volle servirsi di malandrini per combattere il malandrinaggio”.
Maniscalco arruolando malfattori costituì in tutto il regno le “compagnie d’armi” le quali nella loro zona di competenza ”… erano responsabili dei furti e dovevano indennizzare il danno [al derubato]. In fatto, si accordavano coi ladri per i ricatti e coi derubati per le restituzioni. Guadagnavano con gli uni e con gli altri …”.
Il “modello Maniscalco” fece scuola e nell’Italia postunitaria fu seguito dai primi governi della destra liberale con la costituzione in Sicilia dei “militi a cavallo”. Ce ne dà testimonianza Leopoldo Franchetti che li definisce “… accozzaglia di malandrini rivestiti” di una divisa fornita dallo Stato, tra i quali “… prepondera nel più dei casi l’elemento mafioso”.
Il governo italiano “ …. riprende le tradizioni non mai del tutto interrotte del governo borbonico, permette che si arruolino malandrini nella forza armata governativa …” Il Prefetto-generale Giacomo Medici negli anni ’60 forniva salvacondotti a briganti affinché eliminassero altri briganti.
Ma torniamo alla camorra, dopo il ’48 il capointesta Tore ‘e Crescienzo ebbe rapporti anche con i liberali, fino a mettersi al servizio di don Liborio e di Garibaldi nel ’60.
È sempre Monnier che ci racconta le vicende del 1860, poi confermate dalle memorie dello stesso Liborio Romano.
Il 25 giugno il re Francesco II, nel tentativo di frenare il disfacimento del suo regno, aveva riesumato la Costituzione del 1848, promulgandola. Subito dopo concesse una larga amnistia e nominò nuovo prefetto di polizia, prima e ministro dell’interno poi, il liberale Liborio Romano, già perseguitato dopo il ’48 e poi graziato nel ’54. Dai primi di luglio la situazione dell’ordine pubblico a Napoli era diventata insostenibile. Dopo l’amnistia “le prigioni si aprirono e ne uscirono frotte di camorristi. Il loro primo atto, dopo la liberazione, fu di assalire il commissariato di polizia e di abbruciare tutte le carte; dopo di che presero gli sbirri a colpi di bastone. Lasciati a se stessi avrebbero messo Napoli a ferro e fuoco … la città era in balia di se medesima, e la canaglia sanfedista in aspettativa di un nuovo 15 maggio [1848], si preparava al saccheggio”.
Un generale borbonico consigliò di imitare l’antico governo, don Liborio chiese spiegazioni e seguì il consiglio.
Ai primi di luglio il capo della camorra Salvatore de Crescenzo (Tore ‘e Crescienzo) e altri capiparanza, Nicola Iossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano, furono nominati commissari di polizia. Seguirono, pochi giorni dopo, gli altri otto capi dei quartieri nominati commissari o ispettori e una massa di picciotti nominati agenti di polizia.
Il 6 settembre il re, per evitare scontri nella sua capitale, si ritirò a Gaeta e attestò le truppe sul Volturno. Garibaldi, già sollecitato da don Liborio a fare presto, per evitare il pericolo del vuoto di potere, la mattina del 7 prese il treno a Cava dei Tirreni e arrivò in giornata a Napoli insieme a 28 uomini e due donne, trovando una città in perfetto ordine. La camorra – nominata guardia cittadina – era diventata padrona di Napoli, la dogana era completamente nelle loro mani e tutte le entrate ricavate dall’afflusso di derrate alimentari, provenienti dal piano campano o dal porto, erano incamerate da loro.
Intanto, con l’arrivo del Luogotenente di Vittorio Emanuele era tornato in città Silvio Spaventa, nominato all’inizio di ottobre prima prefetto di polizia e poi ministro dell’interno.
Spaventa, vecchio liberale napoletano, che dopo il ’48 era stato rinchiuso per un decennio nelle carceri borboniche, conosceva bene la camorra napoletana e sapeva cos’era avvenuto con don Liborio; così, nella notte tra il 30 novembre e il 1 dicembre diede il via alla prima vasta retata di camorristi, arrestandone 90 tra i più pericolosi e avviando l’espulsione degli altri dalla polizia, sciogliendo la guardia cittadina.
Mezza Napoli voleva ammazzare Spaventa, divenuto direttore generale della polizia cittadina dopo la proclamazione del regno d’Italia. La decisione poi di vietare alla guardia nazionale l’uso della divisa fuori l’orario di servizio, per evitare i frequenti abusi e soprusi, scatenò una violenta protesta contro Spaventa, assediato nei suoi uffici e assalito nella sua casa.
Il generale Enrico Cialdini, ultimo luogotenente del re, nell’estate del ’61, pose fine alla permanenza di Spaventa nella polizia. Ma la repressione della camorra continuò sempre aspra. Nell’estate del 1861 esplose il fenomeno del brigantaggio e fu dichiarato lo stato d’assedio, esteso anche contro la camorra cittadina napoletana e quella casertana, di quest’ultima furono arrestati 200 camorristi. Due anni dopo anche la Legge Pica fu applicata contro i camorristi. Tra la fine del 60 e il ’63 furono arrestati a Napoli e provincia 1175 camorristi.
La camorra napoletana fu la prima organizzazione criminale a sperimentare una repressione di massa nell’Italia unitaria, la seconda ondata – dopo una iniziale fase confusa - toccò alla Sicilia nel 1877, con il prefetto Malusardi.
La camorra, ci dice Monnier, oltre a Napoli esisteva anche in provincia di Caserta, ma qui non c’era la plebe e l’origine dell’organizzazione criminale strutturata sul modello napoletano e a questa collegata, è più simile a quella della mafia siciliana e della stessa ‘ndrangheta reggina.
L’eversione della feudalità voluta da Giuseppe Bonaparte e completata da Murat nel 1808 aveva solo accelerato un processo già in atto a fine ‘700.
Nel piano campano non esisteva latifondo, la proprietà agraria era abbastanza spezzettata ed esisteva una consistente quota di piccoli e medi contadini, ma accanto a questi ultimi vi erano una miriade di figure che vivevano sfruttandoli. Commercianti, piccoli e grandi di derrate agricole, trasportatori, sensali, guardiani, usurai, fornitori e mediatori vari, un insieme di figure sociali che controllavano il ciclo produttivo e il flusso di derrate agricole verso Napoli e il suo porto. È in questo ambiente che si sviluppa una organizzazione criminale che finirà con il controllare l’intera piana fertile.
Nella Sicilia borbonica l’ambasciatore inglese Lord Bentinck aveva imposto al re, che vi si era rifugiato all’arrivo dei francesi, la promulgazione di una costituzione, che in qualche misura ricalcava quella inglese, con una camera alta per la nobiltà e una bassa per la borghesia, unitamente alle leggi di eversione della feudalità. Siamo nel 1812, la debole borghesia siciliana non riesce a sfruttare l’occasione per affermarsi come classe egemone. La costituzione fu un vero e proprio fallimento e se “tutta l’isola non andò in sfacelo fu per l’opera del rappresentante britannico il quale, coll’esercito inglese di occupazione ai suoi comandi, era in Sicilia il re di fatto”.
La fine di Napoleone, la scomparsa di Murat, riportarono i Borboni a Napoli, la costituzione siciliana morì lasciando dietro di sé solo l’abolizione della feudalità.
Franchetti si era posto un interrogativo cruciale: come mai la fine del feudalesimo avesse generato in Piemonte come nel Nord Europa l’affermazione di una borghesia agraria, commerciale e industriale, che aveva portato al liberalismo, in Sicilia invece questo processo non era avvenuto e si era affermata una piccola classe media di facinorosi e violenti?
Sostanzialmente la risposta di Franchetti fu che, nella Sicilia occidentale, i privilegi e i monopoli tolti dalla legge ai baroni furono di fatto mantenuti dai pochi violenti della classe media che a questi si erano sostituiti. Il feudo, ufficialmente abolito, aveva di fatto mantenuto la sua unità latifondistica non più nelle mani dei nobili, ma in quelle di pochi facinorosi con il sistema della gabella.
In un famoso documento del 1838, il magistrato di Trapani Pietro Calà Ulloa ci descrive il clima di generale corruzione dell’amministrazione pubblica, di violenza e insicurezza, e della correlata tendenza a dare vita ad associazioni segrete: “… Vi ha in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo … Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo … Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e si iscrivono ai partiti. Molti alti funzionari li coprivan di un’egida impenetrabile”.
Ma anche nella Conca d’oro, il ricco retroterra agricolo di Palermo, dove non c’è il latifondo, “l’industria delle violenze è per lo più in mano a persone della classe media”.
Una debole borghesia agraria e commerciale si è organizzata in mafia per gestire i fitti dei suoli e il flusso delle derrate, per tenere a bada nobili da una parte e contadini poveri dall’altra, partendo da un uso generalizzato di guardianie, da un controllo dell’usura e delle intermediazioni commerciali. “Tutti i cosiddetti capimafia sono persone di condizione agiata.”
Franchetti è così convinto dell’origine borghese del fenomeno mafioso che per debellarlo, accanto ad un uso diverso della risorsa repressiva da parte del nuovo Stato unitario, ritiene condizione indispensabile la promozione di riforme economiche che, favorendo l’accesso alla terra, accrescano la classe media e la facciano diventare la prima sostenitrice del nuovo ordine liberale.
Insieme a Sonnino che ha analizzato le condizioni dell’agricoltura siciliana, Franchetti ritiene fondamentale la modifica dei patti agrari e l’introduzione del contratto di mezzadria sul modello toscano proprio per favorire la crescita e la diffusione di una classe media nelle campagne siciliane.
Non più quindi uno sparuto gruppo sociale perennemente in lotta contro nobili da una parte e masse sterminate di contadini poveri dall’altra, ma una vasta e solida classe media interessata all’esistenza del nuovo Stato liberale, è questa l’essenza della proposta di Franchetti per la soluzione della questione mafiosa siciliana.
Anche Pasquale Villari, come molti liberali democratici del Mezzogiorno nelle sue lettere meridionali pubblicate nel 1875 ritiene necessario avviare delle riforme socioeconomiche, a partire dalla riforma dei patti agrari, per debellare mafia e camorra.
Monnier, invece, nel 1863 riteneva il problema della camorra risolvibile e in via di soluzione con la dura repressione.
Né le indicazioni della destra liberale riformista, né quella dei liberali democratici furono seguite dai governi nazionali, si preferì appiattirsi sulla repressione. Ma presto ci si accorse che le leggi speciali non erano in grado di debellare il fenomeno camorrista. Esaurite le misure di polizia, scontato il termine del soggiorno obbligato (il primo era di un anno), il camorrista ritornava a delinquere negli stessi modi e negli stessi ambienti dai quali era stato allontanato.
Quasi sempre poi, i più noti camorristi e mafiosi riuscivano ad evitare le misure amministrative grazie ad una rete di relazioni influenti che avevano. È lo stesso Monnier che denuncia il fenomeno. “Dirò tutto: ogni camorrista arrestato avea de’ protettori influenti che gli rilasciavano de’ certificati di buona condotta. Dal momento in cui un membro della setta era condotto alla Vicaria, il questore era sicuro di ricevere venti lettere sottoscritte da nomi rispettabili in difesa dello sventurato!”
Tuttavia, indipendentemente dalla efficacia o meno delle misure amministrative e degli arresti effettuati dalla polizia, un primo rilevante elemento di diversità tra Regno delle due Sicilie e Regno d’Italia sta proprio nel diverso atteggiarsi verso il fenomeno camorrista e mafioso della polizia borbonica e di quella unitaria italiana: largamente tollerante e in parte collusa con mafia e camorra la polizia borbonica, strumento di repressione di massa quella italiana, a Napoli e a Caserta già a fine 1860, a Palermo e dintorni – dopo una esitazione iniziale - a partire dal 1877, con la prima ondata di arresti in massa guidata dal prefetto Malusardi.
Una seconda considerazione sulle diversità tra il prima e il dopo unità riguarda la libertà di analisi e di dibattito intorno al fenomeno mafioso. Se qualcuno si fosse permesso di denunciare in un saggio, come fanno Monnier, Franchetti, Sonnino, Villari, Fortunato, Turiello e altri liberali, i legami e le responsabilità che coinvolgevano amministratori pubblici, poliziotti e politici con le organizzazioni mafiose in epoca borbonica di sicuro sarebbe finito a Montefusco o a Santo Stefano.
Infine il più rilevante cambiamento tra il prima e dopo unità è dato dal mutamento qualitativo del rapporto tra potere politico e fenomeno mafioso. Nel regno delle due Sicilie non si votava alcun parlamento, a capo delle province vi era un Intendente di nomina regia, questi, in nome e per conto del re, nominava i vice intendenti nei vari mandamenti delle singole province e i sindaci dei comuni. La possibilità per i vari clan di influenzare il potere politico era pressoché inesistente. Era solo il potere politico che usava mafiosi e camorristi per i propri scopi concedendo in cambio favori e tolleranze. Con l’avvento del liberalismo, seppure con il suffragio ristretto, le elezioni, amministrative e politiche, segneranno la svolta decisiva per le organizzazioni criminali di tipo mafioso.
“A chi entri nella gara delle ambizioni politiche o locali – dice Franchetti – rimane assolutamente impossibile sottrarsi ai contatti con persone che debbono la loro influenza al delitto”.
Nel 1869 le elezioni di Reggio Calabria furono annullate perché la campagna elettorale fu pesantemente condizionata dall’attiva presenza di mafiosi. “I giornali locali scrissero apertamente di mafiosi che si agiravano impunemente per le vie della città e denunciarono il fatto che i partiti fossero obbligati a far transazioni con gente di equivoca rispettabilità”.
Ancor più esplicito M. Monnier “Tutti quei bravi dei mercati di Napoli non si contentavano di rubare pochi soldi ai sempliciotti: erano addivenuti uomini politici. Nelle elezioni proibivano tale o tal’altra candidatura, confortando co’ loro bastoni la coscienza e la religione degli elettori. Né si contentavano di inviare un deputato alla camera, e sorvegliarne da lungi la condotta; spiavano il suo contegno, si facevano leggere i suoi discorsi, non sapendo leggerli da se medesimi”.
Controllando personalità della politica, mafia e camorra hanno la possibilità di penetrare e condizionare le istituzioni stesse dello Stato. Si aprono, quindi, per i clan spazi operativi prima impensabili, spazi che consentirono un nuovo sviluppo della camorra e della mafia.
Ventidue anni dopo Franchetti, il questore di Palermo Ermanno Sangiorgi scriverà, in un rapporto al ministero “ ….. sgraziatamente i caporioni della mafia stanno sotto la tutela di Senatori, deputati e altri influenti personaggi che li proteggono e li difendono per essere poi, alla loro volta, da loro protetti e difesi”.
Due anni dopo Sangiorgio, il senatore Giuseppe Saredo, relatore della “Regia Commissione d’Inchiesta per Napoli, espliciterà con grande chiarezza il profondo intreccio che si era realizzato sul finire dell’800 tra camorra, politica e pubblica amministrazione. La camorra – dice Saredo – “considera campo da mietere e da sfruttare tutta la pubblica amministrazione.”
A nulla sono servite le ondate repressive che si sono susseguite dopo l’unità, né serviranno quelle successive a Saredo, che pure qualche effetto lo ebbero sulla camorra napoletana. Neanche la più dura di tutte, quella operata da Cesare Mori nel 1926-29, riuscirà ad estirpare le mafie.
Un peculiare fenomeno di criminalità organizzata, la cui caratteristica distintiva era ed è rappresentata dalla capacità di intrecciarsi e interagire con la pubblica amministrazione e il potere politico, negli anni ’70 del ‘900 è uscito dal suo territorio originario invadendo l’intero territorio nazionale.
La mafia, unitamente alla questione meridionale, alla permanente corruzione del ceto politico, al clientelismo e al diffuso e radicato sentimento antipolitico, rappresentano delle costanti – irrisolte – che attraversano l’intera storia unitaria italiana e i suoi diversi regimi istituzionali.


Fonti
Giovanni Falcone, “Cose di cosa nostra”, Rizzoli, 1991, pag.82
Nicola. Tranfaglia, La mafia come metodo, Laterza, Roma-Bari, 1991, pag. 10
Enzo. Ciconte,”Storia criminale”, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2008
Ugo Di Girolamo, “Mafie, politica,pubblica amministrazione”, Guida Editore, Napoli, 2009
Isaia Sales,”Le strade della violenza”, L’ancora del mediterraneo,Napoli, 2006, pag. 24, pag. 67
Francesco Barbagallo, “Storia della camorra”, Laterza, Roma-Bari, 2010, pag. 6
Marco Monnier , “La camorra” Arturo Berisio Editore, Napoli 1965 , (prima edizione 1863),pag. 85
M Monnier, op. cit.,pag 109-116
E. Ciconte, op. cit., pp. 239-240
M. Monnier, op. cit., pag. 123
F Barbagallo, op.cit., pag. 13
M. Monnier, op. cit., pag.112
E Ciconte, cit., pag. 242
Citazione tratta dall’inchiesta Bonfandini riportata in E. Ciconte, op. cit., pag.. 243
L. Franchetti, op. cit., pag. 111
Idem, pag 111
Salvatore Lupo, “Storia della mafia” Donzelli, Roma, 1993 pag. 28
Liborio Romano, Memorie politiche, Marghieri, Napoli 1873
M. Monnier,cit., pag. 124
F. Barbagallo, cit., pag.19
Gigi. Di Fiore , “Potere camorrista. Quattro secoli di mala Napoli”, Guida Editore,, Napoli, 1993, pp. 68-72
L. Franchetti, cit., pag. 73
Franchetti, cit., pp 74-78
Citazione riportata in Giuseppe Carlo Marino, “Storia della mafia”, Newton Compton, Roma, 2006, pag.18
Franchetti, cit., pag. 107, pag.108
M. Monnier, cit., pag..147, pag. 138
Franchetti , cit.,pag.118
Senato della Repubblica – Camera dei Deputati, XV legislatura. Relazione annuale della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare. ‘Ndrangheta, approvata il 20 febbraio 2008, relatore Francesco Forgione, capitolo secondo, Storie – paragrafo 1, Le origini
Monnier, cit., pag. 133
Citazione riportata in S. Lupo ,Che cos’è la mafia, Donzelli, Roma 2007, pag. 91
Citazione riportata in Atti della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla mafia, Camorra, politica, pentiti, relazione del presidente Luciano Violante, a cura di Orazio Barrese, Rubbettino Editore, 1993, pag. 45

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